La Stampa, 22 dicembre 2018
Il maestro dei maestri cambia scuola. Intervista a Donato Renzetti
Il maestro dei maestri cambia casa. Dopo aver formato generazioni di direttori d’orchestra a Pescara, trasloca a Saluzzo «l’insegnante di bacchetta» ottimo massimo, Donato Renzetti. Il progetto si chiama «Obiettivo Orchestra», è promosso dalla Fondazione Scuola Alto Perfezionamento di Saluzzo e dalla Filarmonica del Regio di Torino, inizierà a marzo e durerà tre anni.
Maestro Renzetti, perché trasferirsi?
«È stato un insieme di circostanze. A Pescara avevo già deciso di lasciare, dopo trentun anni era giusto farlo. In quel momento è arrivata la proposta di Saluzzo, molto convincente, che prevede anche la creazione di un’orchestra giovanile di cui il Piemonte e l’Italia hanno davvero bisogno. Ed eccomi qui».
C’è una contraddizione. Come si dice in gergo, lei è nato con la bacchetta in mano, eppure insegna. Si può davvero imparare a dirigere?
«Diciamo che insegnando ho imparato che ci sono cose che non si possono insegnare. Nessun direttore è completo, nessuno avrà mai tutto: orecchio, braccio, capacità di analisi della partitura, cultura, memoria, penetrazione psicologica dell’orchestra. E allora capisci che ci sono cose che si possono apprendere e altre che sono innate. Pensiamo al rapporto con il suono. Stessa orchestra, stessa sala, stesso momento e due direttori diversi: il suono può cambiare enormemente. Il direttore “totale”, in realtà, non esiste».
Di Furtwängler i suoi Berliner dicevano: attaccate quando la bacchetta arriva all’altezza del terzo bottone del panciotto.
«Vede? Ci possono essere dei direttori che provano benissimo e poi al concerto deludono, altri noiosissimi alle prove che davanti al pubblico si trasformano e così via, all’infinito. E poi, certo, c’è anche una componente d’immagine, che oggi è diventata molto importante, anzi più importante che mai. Devi essere bello, fotogenico, con i capelli lunghi. È il mercato, deplorarlo non serve a nulla. Bisogna prenderne atto e così sia».
Un autore che fa da pietra di paragone.
«Direi il solito Mozart. Oppure Brahms. E naturalmente l’opera italiana».
Dunque è d’accordo con chi dice che per un direttore è più difficile «La sonnambula» del «Tristano»?
«Forse sì. Sicuramente, è più pericolosa. Io adoro Wagner, ma Wagner viene da solo. Invece nel belcanto non puoi nasconderti nella partitura (e poi, almeno in Italia, certi titoli li conoscono o credono di conoscerli tutti). Parlo dal punto di vista tecnico, beninteso: interpretazione e cultura sono un’altra cosa. Ma grandi direttori d’opera italiana come Patané o Sanzogno restavano grandi anche quando facevano Wagner o Strauss».
A proposito: lei suonava in buca...
«...entrato alla Scala nel ’63 a 13 anni, il più giovane percussionista d’Europa, e uscito nell’80 quando vinsi il concorso Cantelli e iniziai a fare soltanto il direttore».
E allora chi l’ha impressionata di più, su quel podio?
«Fra gli “antichi”, Scherchen e Barbirolli. Fra i “moderni”, il Kleiber degli ultimi anni. Non aveva un braccio eccezionale, ma era la musica».
E fra i molti allievi del Renzetti insegnante?
«Sarebbe facile citare quelli che hanno fatto più carriera, come Gianandrea Noseda o Michele Mariotti, anche perché mi considerano ancora il loro maestro. Ma in realtà il successo non dipende soltanto dal talento: ci vuole, ma non basta. È un puzzle fatto di molte tessere, di incontri, occasioni, coincidenze. L’importante, dico sempre ai miei allievi, è che la sera vi possiate guardare allo specchio senza provare troppo disgusto per quello che ci vedete».
Ultima curiosità: c’è un brano che ha messo in crisi la sua leggendaria facilità?
«Sì: i Four Sea Interludes di Britten, che sono parte del Peter Grimes ma si eseguono spesso anche da soli in concerto. Io ho diretto senza problemi titolini non esattamente facili come Le marteau sans maître di Boulez o Il naso di Sostakovic, ma in quel Britten ci sono tre o quattro battute che proprio non mi venivano».
Beh, capita.
«Strano, però».