la Repubblica, 22 dicembre 2018
Le origini del presepi, con Zeus e Dioniso
Il presepio è una finzione fragile, per questo è incantevole. È l’incipit del libro che il classicista Maurizio Bettini dedica al primo videogioco dell’Occidente cristiano (Il presepio, Einaudi). In realtà questo passatempo devoto che affascina grandi e piccini ha come materia prima proprio l’incantesimo. Sia che lo si consideri un “sabba pudico”, per dirla con Giorgio Manganelli, sia che lo si consideri una macchina per ritrovare il tempo, la vera natura del presepio, o presepe che dir si voglia, è la finzione.
Sostanza primigenia del gioco, del rito e del teatro. Riuniti insieme per mettere a disposizione di chi, anno dopo anno, tira fuori dalle scatole pastori e suonatori, stella e stalla, bue e asinello, Magi e bambinello, un cast completo per una sceneggiata teologica. Di cui però è difficile, ci avverte Bettini, ritrovare la sceneggiatura originale, il primo draft.
E in questo i Vangeli ci aiutano ben poco. Anzi, se per montare la Natività di cartapesta che da bambini ci faceva sognare, dovessimo seguire le indicazioni evangeliche, potremmo anche rimettere tutto in soffitta e andare a fare shopping. Per fortuna, dice l’autore, la gran parte di coloro che a Natale fa il presepe non pensa ai Vangeli. Ma in realtà qualcosa gli Evangelisti ce la dicono, solo che la loro testimonianza è frammentaria, ai limiti della reticenza.
Per esempio nel racconto di Matteo ci sono i Magi e la stella. Ma tutto il resto? Ci arriva da Luca, il più collaborativo in materia di indizi e circostanze. È lui a parlare della stalla, dell’angelo che dà l’annuncio ai pastori e soprattutto della mangiatoia. È lui che dispone davanti a noi un abbozzo di scenografia, con Giuseppe e Maria, la schiera angelica, le pecore e i loro custodi in preda allo stupore. Un particolare di estrema importanza perché quell’immobilità meravigliata e abbagliata in cui sono fissate le figurine, rappresenta il fermo immagine dell’Incarnazione, l’attimo di sospensione cosmica del tempo che precipita nell’eternità. Ed è proprio questo precipizio, questo cortocircuito tra storia e teologia, a costituire il nucleo incandescente della recita presepiale. Che resta una fiction costruita pezzo dopo pezzo, assemblando frammenti di verità. Teologia, filologia, archeologia, letteratura, filosofia, pittura, scultura. Il risultato è una mitologia ad assetto variabile, narrazione al tempo stesso domestica e liturgica, personale e sociale.
In realtà il presepe è il Vangelo in dialetto, è la Buona Novella che diventa immagine, prima ferma e dopo in movimento, poi sacra rappresentazione, successivamente teatro popolare e infine teatro e basta. Ma di fatto è la trasformazione pop della sacra scena a rappresentare il fattore decisivo della sua diffusione virale. Perché colora di umanità le pallide astrazioni del dogma, le trasforma in memoria vissuta, in condivisione affettiva, in incanto festivo. Ma paradossalmente accostando personaggi e figure con la perspicuità associativa di un casting disinvolto, va vicino al cuore del mistero. Per esempio assegnando al bue e all’asinello un ruolo da protagonisti e facendo balenare analogie con altre religioni che, prima del cristianesimo, hanno ambientato in una grotta la nascita di un dio bambino circondato da animali soccorrevoli.
Bettini ripercorre, da filologo raffinato, queste natività pagane, da Zeus a Ermes, da Dioniso a Mitra. Tutti messi al mondo in circostanze eccezionali, spesso partoriti da madri vergini o da vergini e madri, che li hanno generati nel segreto e tra mille difficoltà in una spelonca, dove sono stati scaldati, nutriti, allevati da fratelli a quattro zampe. E proprio come il bambinello del presepe, molti di questi sacri infanti sono stati adagiati in contenitori di fortuna.
È il caso del líknon, il setaccio contadino per separare il grano dalla pula, in italiano ventilabro, in cui viene al mondo Zeus tra una folla di ninfe tripudianti e sacerdoti inneggianti che assomiglia molto da vicino alla moltitudine di angeli e pastori che cantano la gloria del dio incarnato. E con il padre degli dei condivide il líknon anche Dioniso, a tal punto identificato con la sua non-culla, da essere definito liknítes. Il setacciato.
Il vero minimo comune denominatore tra queste natività fuori norma e la Natività dei cristiani è proprio lo stato d’eccezione che avvolge luogo, tempo, azione e ne fa l’annuncio della nascita di una nuova era. Così le peripezie del “neonato meraviglioso” diventano il simbolo di una rivoluzione che cambierà il corso del mondo e del tempo. Ma Bettini va anche oltre e ci conduce in cerca dell’origine delle statuette. E le intravede nelle bamboline di terracotta che i romani donavano ai bambini nelle feste di dicembre chiamate Sigillaria. O nelle figurine dei Lari, le divinità della casa e della famiglia. E alla fine, in queste miniature della nascita, ci fa scoprire l’illusione della rinascita annuale. Del tempo che non corre, ma ricorre. E a ogni Natale ci regala l’illusione di rivederci come eravamo.