Corriere della Sera, 22 dicembre 2018
Isis, talebani, Putin e i curdi: chi guadagna se in Siria l’America si fa da parte
Donald Trump lo aveva promesso e lo ha fatto. L’ordine di ritiro delle truppe dalla Siria e il progressivo disimpegno dall’Afghanistan erano nel bagaglio che si è portato alla Casa Bianca. Dunque la sorpresa è relativa, anche se questo non attenua gli interrogativi.
La lunga guerraDopo 17 anni l’inferno afghano resta tale. I soli americani hanno avuto 2.400 caduti – più quelli dei partner occidentali, italiani inclusi – mentre gli afghani hanno pagato un prezzo devastante: 38 mila civili e oltre 58 mila militari. Le analisi sostengono che i talebani avrebbero il controllo del 40 per cento del territorio, minaccia ancora più ampia se si considera che sono in grado di agire anche in altre province e nei centri urbani. Sotto il loro mantello opera ciò che resta di Al Qaeda e network letali come gli Haqqani.
Per questo Washington, come in passato, ha esplorato le vie negoziali. Di recente si è svolto un colloquio diretto con il nemico a Dubai, negli Emirati. Vertice che ha escluso le autorità di Kabul, in quanto i loro avversari non vogliono (per ora) sedersi allo stesso tavolo. Difficile dire se il negoziato porterà da qualche parte, forse è l’unica strada da battere. E poi c’è sempre da considerare le mosse delle potenze grandi e regionali, ognuna con il proprio interesse personale. L’Iran a tutela degli sciiti e delle sue frontiere, il Pakistan che fa da sempre l’incendiario e il pompiere, l’India, la Russia pronta a rientrare nel gioco e la Cina.
Negli Stati Uniti, in questi ultimi mesi, c’è anche chi ha offerto a Trump un’alternativa – in teoria – meno dispendiosa. Erick Prince, fondatore della dissolta Blackwater, ha proposto di affidare le operazioni ai suoi soldati privati: un piano che prevede lo schieramento di seimila mercenari al fianco di duemila elementi delle forze speciali, ampi poteri. L’idea è stata affondata dal segretario alla Difesa Mattis che, però, sta per andarsene. Magari la Casa Bianca potrebbe riconsiderare il progetto, come soluzione intermedia.
Il fronte sirianoObama e il suo successore hanno sempre cercato di mantenere le distanze dal ginepraio siriano. Così si sono affidati alla solita arma aerea e al lavoro delle unità scelte. Un binomio unito al patto temporaneo con i curdi che ha decimato lo schieramento del Califfo. Per Pentagono e interventisti, questa task force avrebbe dovuto fare da tappo all’avanzata iraniana «verso il Mediterraneo». Visione considerata da molti osservatori troppo vaga per un presidente che temeva fosse la scusa per prolungare la spedizione in Siria. All’infinito.
Le conseguenze ora sono che il vuoto dovrà essere riempito. Washington ha tradito i curdi, anche se gli impegni a restare sulla stessa barca non erano mai stati netti. Gli stessi coraggiosi combattenti lo sapevano e ora provano a riallacciare il dialogo con Damasco offrendo in cambio le aree petrolifere finite nelle loro mani.
Lo Stato Islamico non è per nulla sconfitto, tanto è vero che in queste ore ha lanciato una delle sue manovre a sorpresa nell’est. «The Donald» ha sostenuto che saranno russi, siriani e altri a doversene occupare, ha riannodato il filo con Erdogan offrendo armi e abbandonando i curdi. Il Sultano turco avrebbe detto di essere pronto a muovere, tuttavia – per il momento – ha deciso di rinviare nuove iniziative belliche. Preoccupato Israele che contava in un coinvolgimento maggiore degli Stati Uniti in chiave anti-Teheran ed è tornato a ad alzare toni/azione al confine con il Libano per contrastare gli Hezbollah. Sembra che Mosca avesse proposto un compromesso a Gerusalemme all’interno di un’intesa che prevedeva la partenza degli iraniani, uno stop a nuove sanzioni contro gli ayatollah e il ritiro statunitense. Un tentativo di sistemazione per evitare altri guai e rivalità future.
Putin, oggi, conta di più nella regione, incassa l’ammainabandiera americano, ma sa bene che il Medio Oriente è sempre pieno di sorprese, di giravolte, di inganni. C’è un limite anche per lui.