Corriere della Sera, 21 dicembre 2018
Libano, la guerra 50 metri sotto terra
Chiamiamola la regione dei tunnel. Sono scavati qui sotto, lunghi centinaia di metri, larghi almeno un metro e mezzo, alti mediamente 1,70, percorsi da tubi per l’aereazione, alcuni scavati con macchinari sofisticati a profondità dai 15 ai 50 metri. «Sono stati lavorati con perizia. Qui, a differenza dei tunnel palestinesi di Gaza, il sottosuolo non è sabbioso, ma dura roccia. Potrebbero essere stati scavati molti anni fa. Ciò potrebbe significare che oggi sono in disuso e l’allarme sarebbe limitato, se non nullo. Ma potrebbero anche essere armi dormienti, pronte all’uso quando necessarie, gallerie d’attacco potenziali. Vanno scoperte, valutate per capire se davvero attraversano la Blue Line (la linea di divisione tra i due Paesi, ndr) verso Israele e chiuse. Ci attendiamo risposte convincenti dalle autorità militari libanesi», ci diceva due giorni fa Stefano Del Col, il generale italiano che comanda i circa 10.500 effettivi del contingente delle Nazioni Unite (Unifil) nel Libano del sud.
Una situazione potenzialmente esplosiva, foriera di violenze legate alle crisi che si addensano tra Israele e Iran, passando per Damasco e alimentate dalle notizie sul prossimo ritiro dei circa 2.000 militari Usa a sostegno dei curdi siriani nella guerra contro Isis. Non a caso il Paese dei Cedri è tradizionalmente una cartina al tornasole molto sensibile delle tensioni che innervosiscono il Medio Oriente. Anche se per il momento dalla parte del confine libanese si vede solo un paesaggio bucolico, che la sera s’illumina delle luci degli alberi di Natale nei pochi villaggi cristiani. Sono cresciuti negli ultimi anni, dopo che i 33 giorni di guerra tra Israele e Hezbollah nel 2006 avevano trasformato le alture del confine in un deserto di cenere, con villaggi in macerie. Gli osservatori Unifil indicano quella di Ramyah come una delle zone di entrata dei tunnel. «Qui sotto passa almeno uno dei 4 scoperti dalle truppe israeliane e verificati dai nostri ispettori Onu come una violazione della Risoluzione 1701, che nel 2006 stabilì il cessate il fuoco e rafforzò Unifil», ci dice il generale Diodato Abagnara, comandante dei circa 1.100 bersaglieri della brigata Garibaldi e del settore occidentale. Ramyah, come il vicino abitato di Bent Jbeil, 12 anni fa furono rasi al suolo dai bombardamenti israeliani. Hezbollah vi aveva scavato una fitta rete di bunker e ricoveri da dove lanciare migliaia di missili e blitz di commando ben addestrati. Oggi tra gli edifici ricostruiti sventolano le bandiere gialle del movimento. Sui muri sono visibili i ritratti dei «martiri» caduti in combattimento. Sono la gran parte degli oltre 1.300 libanesi morti allora. Per Israele, i tunnel sarebbero la prova che Hezbollah starebbe preparando un’altra offensiva. Non è però d’accordo il 62enne Hassan Dabuk, dal 2010 sindaco di Tiro e massimo rappresentante politico sciita locale. «Non vedo alcun segnale di guerra imminente. Qui siamo tutti concentrati sulla ricostruzione. Hezbollah sa bene che verrebbe messo all’indice dalla sua gente se causasse un’altra ondata di distruzioni».
Il generale Del Col chiede però che le autorità libanesi agiscano presto. «Gli israeliani mi hanno condotto a visitare i tunnel sul loro territorio. Ho visto i buchi scavati per individuarli. Almeno 3, ma potrebbero essere molti di più. Noi abbiamo inserito i nostri sensori a raggi laser per verificare che davvero vengono dalla zona libanese. Non credo vi sia una vera uscita in territorio israeliano. Ora lavoro per individuare le entrate in Libano. Ma noi non possiamo operare nelle proprietà private, dobbiamo chiedere che l’esercito libanese lo faccia per noi». La sua spiegazione illustra uno dei motivi delle tradizionali critiche israeliane: Unifil non avrebbe «i denti» per bloccare con efficienza Hezbollah. Ma ciò vale anche per le infrazioni compiute metodicamente da Israele che, aggiunge il generale, «invade continuamente lo spazio aereo libanese con droni e jet militari. E via mare. Noi non possiamo reagire con le armi. Possiamo solo denunciare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu».