Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  dicembre 21 Venerdì calendario

In morte di Andrea Pinketts

A migliaia, ieri sera, dovunque fossero, hanno sollevato una pinta di birra, mischiando risate e lacrime e nominando, ricordando, celebrando Andrea Pinketts, morto ieri, in pochi mesi di malattia fulminante. Se non l’hanno fatto, lo faranno. Con perfida saggezza Karl Kraus diceva che «ci sono due specie di scrittori. Quelli che lo sono e quelli che non lo sono». Nessuno ha mai dubitato che Andrea lo fosse. Uno scrittore che poteva recitare se stesso e che possedeva, come da titolo di uno dei suoi libri, Il senso della frase.
Era la sua specialità, sbocciata per il pubblico nella Milano degli anni Ottanta, quando, sempre per citarlo, era terminata la “Milano da bere”, quella dei paninari, della politica rampante, della discomusic, lasciando però «il conto da pagare».
Basta cliccare in Internet, i suoi aforismi si ritrovano dovunque. Pinketts li affinava già trent’anni fa in un posto magico, che non c’è più, chiamato “Libreria del Giallo”, unica in Italia. Era aperta a metà di corso di Porta Romana e se tra i giallisti/noiristi italiani che invecchiano e cambiano stile, look, reddito, non corrono invidie e gelosie, ma soprattutto amicizia, affetto, serate insieme, chiacchiere in libertà, un po’ era merito della libraia, di Tecla Dozio, ma non poco è dipeso da Pinketts: sotto la maschera nascondeva una dolcezza arrendevole, una risata contagiosa e la capacità di saper reggere la scena stando attento a non togliere mai attenzione ad altri. E, sì, interpretava la parte da artista-canaglia per non lasciar sgorgare una profonda solitudine, che talvolta traspariva in uno sguardo perso, in una passeggiata pensosa, in una sbronza colossale.
S’era sciupato, consumato, anche sprecato, ma nonostante gli amici fossero preoccupati per la sua salute, è davvero difficile connettere alla morte questo cantore di Milano, città della quale ha descritto delitti e amori, passanti e protagonisti. Sigaro sempre in bocca, camicie colorate, cravatte fulminanti, scarpe con la para «per uscire e vincere la noia, è meglio la paranoia», aveva cominciato semplicemente vincendo premi letterari.
Il suo personaggio si chiamava “Lazzaro Sant’Andrea”: Lazzaro come quello del miracolo della rinascita e, ovviamente, il Santo che l’aveva riportato in vita era lui, Andrea, che attraverso la scrittura, e l’amore dei lettori, la partecipazione alle serate di libri e chiacchiere, sapeva di essere il guaritore di se stesso. Le sparava grossissime, un po’ come a suo tempo Giancarlo Fusco, sosteneva che a Milano i giallisti appartenevano alla sua “scuola dei duri”, spiegava di essersi mantenuto facendo il giocatore di poker professionista e il pugile a Hong Kong.
Nessuno lo smentiva, anche tra i più intimi si sapeva che dentro il Trottoir — quando il bar non era come oggi vicino alla Darsena, ma in corso Garibaldi — una magnifica ragazza, giornalista, allora la sua fidanzata “ufficiale”, gli aveva mollato un diretto alla mandibola, spedendolo al tappeto.
A differenza dei veri marpioni, Andrea versione play boy seminava tracce visibili e imperdonabili del suo sfarfallare.
Sua mamma, finché è stata viva, non lo mollava mai: «La maggiore attività di una madre dopo la procreazione è la preoccupazione», diceva lui. Era fiera e agitata per aver generato un talento del giallo e un disastro di ragazzo, che le presentava a ogni stagione una fidanzata diversa, senza sposarne mai una. Quando l’ingombrante mamma morì, Andrea, tristissimo, ne ereditò il cane e per un po’ non scrisse più e diventò difficile parlarci, ma due qualità, tra le altre, l’hanno sempre salvato dal lato più oscuro: la curiosità da predatore di vite altrui e una ancor più grande generosità per il mondo.
Da curioso, una volta, travestito da attore porno, è andato in giro con una frusta a pestare i clienti di un festival a luci rosse, divertendosi da matti. Sempre da curioso, e da teorico del trash (conosceva i dadaisti e il surreale, aveva letto tantissimo, conosceva nei dettagli autori minori di ogni cultura), aveva partecipato a qualche programma tv, tra horror e chiacchiere, gialli e crimini.
Lasciava sempre il segno e nei giorni dell’ultimo BookCity, a novembre, nonostante stesse all’ospedale di Niguarda, con la sua faccia bella e larga resa spettrale dalla malattia, non s’era sottratto, s’era sforzato di offrire ai lettori qualcosa di suo. Prima ancora, per le pagine milanesi del nostro giornale, dopo aver detto più volte: «No, mi spiace, finché non combatto questo mostro dal nome orrendo, al computer non mi ci metto», ha spedito un esilarante resoconto di piazza Gae Aulenti: «In un pomeriggio d’inizio agosto ho visto bambine color cuba libre alte almeno un metro e ottanta», mentre sotto il manifesto con l’occhio di Chiara Ferragni anche lui temeva di «prendere l’influencer».
Il file era arrivato attraverso una giovane signora, «è una delle devote di Pinketts, ho un gruppo fedele che mi aiuta, ma quando finisco la lotta noi ci vediamo per bere, ora non posso, manco deglutisco, e se vedo bere gli amici mi viene la tentazione». Era così autentico, Andrea, che poteva permettersi di apparire finto. E non è da tutti gli scrittori, essere veri.