il Giornale, 21 dicembre 2018
Il ristorante superstellato per la cucina d’alta quota
Il più alto ristorante stellato è a 30mila piedi ed è un aereo in volo. Molte compagnie aeree propongono in business class pasti ideati da chef osannati dalla critica a terra. La Singapore Airlines, addirittura, ha creato il cosiddetto International culinary panel (Icp), uno staff di otto chef di tutto il mondo di cui fa parte anche il nostro Carlo Cracco, oltre all’americano Alfred Portale, al francese Georges Blanc, al giapponese Yoshihiro Murata e al altri quattro chef. Pasti che possono essere anche ordinati in anticipo online con il servizio Book the Cook, il The Fork con le ali.
I menu stellati vengono ideati dai cuochi sulla base non solo della loro creatività ma anche delle differenze condizioni che si vengono a creare ad alta quota, dove ad esempio certi sapori come il dolce e il salato si attenuano e il nostro corpo si disidrata. E dove la pressione dell’aria che cambia velocemente e l’aria secca della cabina generano secchezza delle mucose e riducono, pare, la percezione del gusto anche del 30 per cento.
Non solo: la alta cucina, anzi la altissima cucina pone anche altri problemi. Intanto è destinata a un pubblico frastornato dai cambi di orari, spesso spaventato, quasi sempre annoiato o intontito. Poi è l’unico caso di gastronomia di alto livello «rinviata». Nel senso che condizione necessaria (ma non sufficienti) per fare haut cuisine è che sia espressa. Gli chef devono invece preparare pasti che poi il personale di bordo – di solito adeguatamente addestrato – dovrà rigenerare prima di servirlo. Per questo a Singapore, in uno stabilimento della Sats accanto all’aeroporto di Changi – che fa più passeggeri di Fiumicino e Malpensa messi insieme, per dire – i pasti stellati o no vengono provati dagli esperti di Singapore Airlines in una sala da pranzo che riproduce le stesse condizioni di un aereo in volo in termini di temperatura e pressurizzazione. Noi ci abbiamo mangiato qualche giorno fa provando per l’appunto con una giacca ben calcata – faceva freddino, sapete – il menu inventato da Cracco: Insalata di aragosta e finocchi; Spigola al vapore di agrumi con purea di lattuga; Filetto di vitello scottato con crosta di nocciole; Guscio di meringa riempito con crema di vaniglia. Buono. Buonino. Meglio che alla tavola calda sotto casa ma non al livello di un vero ristorante stellato. Del resto, avevamo fatto i conti senza l’hostess.
Prima di questo pranzo bizzarro nel finto aereo avevamo visitato quello che senza dubbi è uno dei più grandi e complessi ristoranti del mondo. Quello nello stesso grande impianto della Sats in cui vengono preparati 80mila pasti al giorno e sfornate 70mila pagnotte. E che però assomiglia a un laboratorio di un film di fantascienza più che a una cucina. Salvo nel posto in cui vengono preparati i satay, gli spiedini della tradizione malese (in tre varietà: di pollo, di manzo e di montone), cotti su una grande griglia e vegliati e girati da alcuni addetti come in una sagra di paese. L’unico momento della visita in cui l’odore pervasivo ci ha ricordati il fatto che si possa anche avere appetito.
Il resto è un viaggio in una ristorazione sterilizzata e politicamente corretta. In cui vanno tenuti in debito conto, più ancora che in un ristorante tradizionale, gusti, stili alimentari e condizionamenti religiosi di un pubblico davvero globale, che mangia halal, mangia kasher, mangia vegano, mangia vegetariano, mangia da bambino (perché è un bambino, o magari no), mangia salutista, si tiene leggero, si stordisce bevendo, basta che si mangi, mangia poco, mangia tanto, mangia tutto. E soprattutto – a 30mila piedi di altzza, per l’appunto – non può decidere di cambiare locale.
L’executive chef di questa grande pazzesca mensa dove centinaia di cuochi vestiti come chirurghi si affaccendano in una grande catena di montaggio divisa in sezioni collegate da lunghi corridoi in stile Shining ma senza l’antigienica moquette è un tizio svedese dal nome slavo, Dragan Unic, e dalla faccia da contrabbandiere, che coordina una vera cucina da incubo. Per entrare abbiamo – noi umani provenienti dal mondo umido e contaminato che c’è là fuori – dovuto bardarci come visitors, metterci una cuffietta anche noi che non abbiamo un capello in testa dal 1993, sottoporci a una doccia sterile che prevede una specie di danza per fare in modo che il soffio di aria purificatrice non lasci zone inesplorate. Olé.
Poi, una volta dentro, abbiamo visto: una stanza Dim-Sum dove vengono preparati abbastanza ravioli orientali da sfamare una Chinatown media. Un vano per la cottura di riso giapponese grande come uno sgabuzzino di media superficie; una grande piastra tonda rotante su cui girano quindici padelle nelle quali tra abili e un po’ annoiati addetti producono una omelette ogni quattro secondi, senza sbagliare un colpo; praterie di patate lesse condite in modo massivo di sale, olio e un’erba verde che mai sapremo che cos’è; una grande fabbrica di purè; la cucina dei piatti stellati, guidata dal francese Christophe Crest; tappeti di vaschette bianche, alcune vuote, alcune piene, alcune riempite davanti ai nostri occhi; tappeti di vassoi in cui vengono messi gli accessori al piatto principale: acqua, pane, posate, una tazza vuota; abilissimi tagliatori di frutta, che viene ancora lavorata a mano: angurie, meloni, limoni.
Usciamo dalla fabbrica dei sapori volanti e ci rituffiamo nell’umidità di Singapore consapevoli che non guarderemo più con sufficienza quei vassoi serviteci da una hostess. Dar da mangiare ai passeggeri di un volo intercontinentale è un lavoraccio, credeteci. Ma qualcuno (le compagnie aeree) deve pur farlo.