Corriere della Sera, 21 dicembre 2018
Salvini uomo qualunque
Per me il capolavoro è stato il sushi take away prima di una riunione notturna con Conte e Di Maio. Una vera e propria Stele di Rosetta del populist style. La foto dell’uomo ingobbito, infreddolito, con la busta di carta marroncina in mano, voleva dire nell’ordine: io lavoro fino a tardi; che palle ne farei volentieri a meno; non frequento ristoranti di lusso; a una certa mi viene fame; mangio in piedi, con le mani; fast food non finger food; i panini di Palazzo Chigi mi fanno schifo; e un po’ pure la politica.
Naturalmente ognuno ha il suo «momento Salvini» preferito. La recita di Natale della figlia invece del brindisi al Quirinale (un po’ scontato, se posso permettermi); la trasferta ad Atene col Milan (un po’ sfortunata, se posso infierire); la giacca a vento da ultrà alla festa della Curva Sud di San Siro (subito corretta da un giubbotto da poliziotto alla Camera, per non essere iscritto alla corrente «Acab» del tifo estremo). E poi «due etti di bucatini Barilla, un po’ di ragù Star e un bicchiere di Barolo»; «la giornata comincia con un bel Bacio Perugina»; pizza, birra e «modalità Champions».
Potrei continuare. Salvini parla con il corpo come nessun altro politico italiano prima di lui. Ma, proprio perché è un trattato di antropologia, a noi deve interessare il significato più che il significante. Perché lo fa? Che cosa vuole dirci? E perché piace tanto?
Frastornati da tanto comunicare (i soli contenuti pubblicati su Facebook sono di recente saliti dai trecento ai quattrocento al mese), gli avversari sbagliano spesso bersaglio nel tentativo di colpirlo. L’ultima corrente critica lo paragona a un influencer, come se fosse una Ferragni in pantaloni, e addirittura sospetta che esibisca i marchi per motivi commerciali. Ma in realtà Salvini non vuole influenzare proprio nessuno. Al contrario: vuole essere influenzato. Studia da anni per diventare «uno di noi». E finalmente ci è riuscito. Oggi interpreta il ruolo come nessun altro.
Gli abiti, per esempio: quanti ne cambia al giorno? Felpe e giubbotti sono pura semantica, servono sempre a segnalare un’appartenenza; camicie solo se necessarie e rigorosamente stazzonate; cravatte larghe e allentate sul collo; barba non fatta ma non sfatta. In materia di cibo, poi, la sua è una poetica da discount: Baci Perugina, mica Ferrero Rocher, che quelli li porta il maggiordomo; bucatini Barilla, niente pasta di Gragnano trafilata in bronzo; sugo Star, altro che San Marzano Dop. L’unica volta che ha corso il rischio di essere trascinato in un mondo di ricevimenti e tartine, è stato durante il fidanzamento con la Isoardi: troppo celebre e glamour per durare al suo fianco.
Il «cattivismo» è l’altra faccia della mitezza
e dell’«uomocomunismo»
I leader di domani già si allenano
e forse saranno il contrario di lui
In questo complesso da «uomo qualunque» non c’è nulla di male: tutti i politici ci provano, anche i meno qualunque. Berlusconi cambiava cappelli come lui le felpe, berretto da ferroviere, casco da elettricista, fazzoletto da partigiano. Però sotto portava sempre il doppiopetto. Pure l’altro Matteo ebbe una sua breve stagione da everyman, quando girava in Panda e indossava i jeans, prima degli abiti di sartoria e del jet di Palazzo Chigi.
Salvini è diverso. Non perché sia rozzo, come dicono alcuni (anzi: è figlio di un dirigente d’azienda, ha fatto il classico al Manzoni di Milano, è in politica da 25 anni). O perché sia spontaneo, come dice di se stesso. Diventa ciò che sei, suggeriva la saggezza greca. Lui lo è diventato, con applicazione e impegno.
Ma attenzione: non basta essere Zelig per volare nei sondaggi. Gli uomini comuni restano tali, se un’idea non li fa sentire speciali. Il favore che Salvini riscuote sarebbe dunque incomprensibile senza considerare un altro tratto cruciale del suo stile: è ostinatamente e politicamente scorretto. Si fa uno scrupolo di dire sempre ciò che prima non si poteva dire, e così sdogana il Salvini che è dentro di noi; ci fa venire in mente idee che non condividiamo, ma non ci dispiace se qualcuno ha il coraggio di dirle. Il punto più spericolato di questa tattica lo toccò un anno fa a Macerata, quando non accettò di aggiungersi al coro di esecrazione per il raid di Luca Traini, ma puntò il dito contro una «immigrazione fuori controllo che porta allo scontro sociale». Fu la svolta della campagna elettorale, che gli permise di scavalcare Berlusconi.
Da allora Salvini è come quella pubblicità dell’«uomo che non deve chiedere mai». Il «cattivismo» è l’altra faccia dell’«uomocomunismo» e della mitezza personale (tutti dicono che in privato è gentile e ragionevole). Quando l’applaudono ringrazia come un buddista, con le mani giunte portate alla fronte. Ma per strappare quegli applausi sa benissimo che deve épater le bourgeois, colpire l’establishment, scandalizzare l’élite. Così troppe volte dimentica la dignità della carica che riveste. Si definisce «indagato tra gli indagati» se beccato a chiacchierare con un ultrà condannato per droga. E da ministro dell’Interno deve dare la scorta a un giudice minacciato dopo che lui l’aveva attaccato sui social per una sentenza.
Finché l’italiano medio resterà incazzato, a Salvini tutto sarà perdonato. Ma quanto durerà l’età del rancore? Dopo ogni rivoluzione arriva sempre un Termidoro. E già i leader di domani si allenano. Saranno magari il contrario di lui, eleganti e forbiti, sempre freschi di barbiere e con la pochette nel taschino. Alla Conte, praticamente.