la Repubblica, 21 dicembre 2018
Parla Mary-Kay Wilmers, direttrice della London Review of Books
LONDRA Nel quartiere di Bloomsbury dove visse Virginia Woolf, in un vicolo davanti al British Museum, saliti cinque piani di anguste scale, una piccola donna dai capelli grigi, tagliati all’ultima moda, si aggira come il comandante di una nave nell’open space di una redazione ingombra di libri e giornali. Carta, carta, carta: l’universo della London Review of Books e della sua mitica direttrice, Mary-Kay Wilmers, che in questo 2018 ha celebrato due compleanni, i propri 80 anni e un quarto di secolo alla guida di quella che il Guardian definisce «la migliore rivista del mondo». Un quindicinale di attualità e cultura in controtendenza nell’era della rivoluzione digitale: la tiratura cresce invece che diminuire, con diffusione sparsa in tutti i continenti. Nel cucinino attiguo all’ufficio della direttrice, sopra i fornelli, una mappa del pianeta contrassegnata da spilloni indica il numero di copie vendute in ogni paese (in Italia sono 438, in tutto superano le 70 mila). Una delle eccentricità della Lrb, l’acronimo con cui la chiamano i lettori, insieme alla quasi assenza di foto, agli articoli sterminati e alle ultime due pagine di piccola pubblicità in cui si leggono annunci come questo: «Smetti di farmi gli occhi dolci e smetterò di farli a te. In questa scatoletta di carrozza del metrò non c’è abbastanza posto per due single tormentati dal desiderio che comunicano in alfabeto oculare. Ho notato che leggevi la Lrb e questa è la mossa d’apertura della mia partita d’amore». Seguono email e numero di cellulare. «All’inizio ero io a scrivere gli annunci personali, inventandoli», confida la direttrice. «Ho smesso quando mi sono accorta che arrivavano troppe risposte di persone che conoscevo». È d’accordo che siete “la migliore rivista del mondo”, signora Wilmers? «Ne dubito. Non leggo abbastanza riviste per sapere se siamo i migliori». Quali sono i vostri meriti? «Curiamo molto i testi. Pensiamo che la complessità sia una buona cosa. Non c’è sempre bisogno di semplificare: le idee sono complicate. E siamo ambivalenti. A cominciare da me». Lode al dubbio, come affermava Brecht? «L’ambivalenza è di più. Significa riconoscere che possono esserci buone ragioni in opposte opinioni. Chi non è d’accordo con te non è necessariamente un idiota». Sebbene la tentazione di pensarlo, davanti a Trump o alla Brexit, sia forte. «Perché oggi un sacco di gente difende idee semplicistiche, che non aiutano il dibattito. Tantomeno il futuro del mondo». Molti anni fa, alla domanda su come sceglieva gli articoli, il direttore del “New Yorker” Willliam Shawn mi rispose: «Se interessano a noi, pensiamo che interessino i lettori, perché non li riteniamo più stupidi di noi». Vale anche per lei? «Fino a un certo punto. Ci sono argomenti che a me non interessano, perché ne capisco poco, come l’economia, ma interessano un gran numero di lettori. Fortunatamente in redazione abbiamo chi supplisce alla mia lacuna in materia». Quanto tempo date ai vostri collaboratori per scrivere un pezzo? «Il tempo che serve». E limiti alla lunghezza degli articoli? «Anche in questo, massima libertà». Nessuno si lamenta che certi pezzi, nell’era di Twitter, sono troppo lunghi? «Non ha senso accorciare gli articoli: di roba corta ce n’è in abbondanza altrove. La lunghezza dei nostri pezzi aumenta. Una volta era in media 2 mila parole, adesso è 4 mila. La cover story sul primo anniversario dell’incendio della Grenfell Tower occupava dalla prima all’ultima pagina del giornale. Non ho avuto lamentele». Che giornali legge? «Il New Yorker e la New York Review of Books, quest’ultima una specie di nostra rivista sorella. Talvolta la Paris Review. Non più lo Spectator e il New Statesman. Sono peggiorati, pur mantenendo la vecchia distinzione: il primo, di destra, è scritto meglio, ma il secondo, di sinistra, dice le cose giuste». Cosa pensa del licenziamento di Ian Buruma da direttore della “New York Review of Books” per avere pubblicato il pezzo di un collaboratore accusato di abusi sessuali? «Probabilmente ha sbagliato a pubblicarlo. Ma licenziarlo odora di maccartismo. Capisco che c’erano pressioni della pubblicità, inserzionisti che minacciavano di ritirarsi». E non legge quotidiani? «Poco. Il Guardian è più cauto e noioso di quando lo dirigeva Alan Rusbridger. Del Financial Times mi piace l’inserto culturale del sabato, ma anche quello è meno brillante di una volta. E il New York Times spesso somiglia al National Geographic: si occupa di un paese con un lungo articolo e poi più. Mancano solo le foto delle giraffe». Se non legge tanto i quotidiani, dove prende le notizie? «Dalla Bbc. Insieme al National Health Service (il servizio sanitario pubblico nazionale, ndr.), le due migliori istituzioni britanniche». I giornalisti di oggi le paiono migliori o peggiori di quelli di ieri? «Ai giornalisti d’oggi non viene sempre data l’opportunità di crescere: il tempo di concentrarsi su una storia, lo spazio per raccontarla bene. È più difficile emergere, scrivendo in fretta e in breve». Ma che consiglio darebbe a un giovane reporter? «Meno opinioni, più fatti. Di opinioni ne circolano troppe e finiscono per oscurare i fatti, che invece, se descritti bene, parlano da sé. Non mi riferisco solo al giornalismo investigativo, bensì a tutto quello che non finisce sui giornali: le vite ordinarie su cui non si posano i riflettori dei media. Anche quelle raccontano una storia. Forse la più importante».