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 2018  dicembre 20 Giovedì calendario

«Io resterò per cinque anni». Intervista al premier Conte

È vero che ieri è nato il governo Conte?
«Veramente, è nato il 1° giugno. E io sono stato premier dal primo giorno, e fin dall’inizio ho avuto consapevolezza del ruolo che andavo a ricoprire».
F ormalmente sì, ma non molti la vedevano così. Prima era il governo Di Maio-Salvini con lei esecutore. E poi, dopo l’accordo con l’Europa, le opposizioni hanno parlato di manovra sotto dettatura di Bruxelles.
«Guardi, io a certe cose non faccio molto caso. Dovevo portare a casa un risultato importante per l’Italia: evitare l’apertura di una procedura di infrazione per debito eccessivo. L’ho fatto e ne sono felice per il mio Paese. Quanto al mio ruolo, in certi passaggi è necessario enfatizzarlo, altre volte preferisco operare sintesi in maniera più discreta».
Seduto al tavolo di Palazzo Chigi dove la sua maggioranza ha scritto e poi corretto la manovra finanziaria che ha tenuto in bilico governo e opinione pubblica per settimane, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, appare soddisfatto. Confessa di non avere dormito la notte tra lunedì e martedì, perché il fantasma del «partito del rigore» era riapparso proprio nelle ore finali della trattativa. Ma ieri mattina la tensione si è sciolta: la Commissione europea gli ha dato quel «placet» che appena due settimane fa appariva impossibile.
Non si può dire che foste partiti col piede giusto, tra Roma e Bruxelles.
«È stata una trattativa con alti e bassi, che ho cercato di affrontare con perseveranza e tenacia. Sapevo di dover raggiungere un obiettivo utile al mio Paese. E ho cercato di perseguirlo sapendo che c’erano condizioni non solo tecniche ma politiche delle quali tenere conto nell’interesse del Paese».
Un po’ più di umiltà all’inizio da parte dei suoi due vicepremier non ci avrebbe risparmiato spread in ascesa e miliardi di euro bruciati?
«Guardando le cose in retrospettiva, non credo che toni meno dialettici avrebbero dato all’Italia quel 2,4 per cento che ci eravamo prefissati all’inizio».
No, ma magari sareste arrivati al 2,04 per cento senza creare e crearvi problemi.
«Difficile a dirsi col senno di poi. Il nostro obiettivo era quello di poter procedere con una manovra che riflettesse quanto era, a nostro avviso, nell’interesse dei cittadini. Non credo che, affidata a un tono più dialogico, questa soluzione avrebbe ricevuto solo per questo il pieno sostegno della Commissione europea».
E dalla trattativa che lezione ha tratto? Quando si ha davanti l’Europa servono più i pugni sul tavolo o la testa?
«Con l’Europa bisogna dialogare, sempre. E questo mi pare di averlo fatto con ostinazione. Ma bisogna anche farlo senza rinunciare al proprio programma politico e ai propri obiettivi».
L’intesa allunga o accorcia la vita al suo governo?
«Spero che migliori la vita del Paese, oggi e per i prossimi anni. Mi preme questo».
I sondaggi continuano a dare una Lega in ascesa, e Matteo Salvini prenota Palazzo Chigi. È pronto a cederglielo dopo le Europee?
«Onestamente no, non sono pronto a questo passaggio delle consegne. Ma non perché tenga alla poltrona. Questo governo è frutto di un impegno con gli italiani per realizzare un progetto riformatore che richiede tempo ed energie per l’intero arco della legislatura».
Ha colpito che ieri, in Senato, lei non avesse accanto né Di Maio né Salvini, ma i ministri tecnici Giovanni Tria e Enzo Moavero.
«Erano assenti giustificati».
Giustificati perché sono i perdenti della trattativa?
«No, inutile ricamare su problemi inesistenti. Avevano impegni istituzionali e mi avevano avvertito che non potevano essere presenti».
Lei saprà che alcuni leghisti hanno sostenuto che in caso di «no» della Commissione si sarebbe riaperta la discussione sulla permanenza dell’Italia nell’Ue e nel sistema della moneta unica. Aveva anche lei questa preoccupazione?
«Questo non è né sarà mai un obiettivo politico di questo governo. Ma attraversare una procedura di infrazione che avrebbe messo sotto controllo i conti dell’Italia per sette anni, inutile negarlo, avrebbe avuto un costo politico molto elevato, e forse non del tutto prevedibile».
Sul «sì» della Commissione all’Italia h a pesato la protesta dei gilet gialli ?
«Può avere avuto il suo peso, anche se è difficile da quantificare. Dalla prima cena a Bruxelles sui negoziati, quando mi sono sentito rivolgere alcune critiche contabili, ho invitato i miei interlocutori a considerare che noi avevamo davanti l’esigenza di mantenere la stabilità sociale in Italia. Ho menzionato esplicitamente al commissario Pierre Moscovici la rivolta dei gilets jaunes in Francia».
Non ha mai temuto che saltasse tutto, che il negoziato fallisse?
«All’inizio lo temevo, quando ho capito che tutti i membri della Commissione erano per l’apertura della procedura di infrazione contro l’Italia. Poi, nel corso della trattativa ci sono stati momenti in cui c’erano aperture, e poi rigide chiusure del fronte del rigore. Martedì si è sbloccata la situazione. Mi sono reso conto che per togliere dal tavolo l’eventualità della procedura di infrazione dovevo parlare col capofila del fronte del rigore».
Il commissario Valdis Dombrovskis...
«Esatto. Non potevo lasciare che la Commissione si dividesse su di noi. Ho chiamato Dombrovskis, ho detto che condividevo le sue preoccupazioni, e sono riuscito a spiegare le ragioni per le quali la terza economia dell’eurozona non poteva essere sottoposta a quella procedura: anche l’Ue rischiava di entrare in una spirale dalle implicazioni pericolose. E l’ho convinto».
E forse l’Europa ha convinto voi a rimettere i piedi per terra rispetto al programma iniziale?
«Ma guardi che l’impianto della manovra è rimasto quello iniziale. Ci hanno dato flessibilità e abbiamo introdotto dei meccanismi per reperire le risorse finanziarie».
Ha pesato lo scontro verbale della sua maggioranza con la Commissione?
«Non abbiamo mai pensato a una manovra-schiaffo, a una ribellione antieuropea. Non avevamo argomenti pregiudiziali per dimostrare qualcosa. Il nostro è un approccio pragmatico: avevamo solo da rispettare gli impegni presi con gli elettori».
Gli scambi di insulti non hanno aiutato.
«C’è stata una fase acuta in cui la dialettica bidirezionale mi ha fatto temere che venissero offuscati merito e qualità della manovra, questo sì».
Come ha convinto Di Maio e Salvini ad abbassare i toni?
«Ci siamo resi conto tutti che questo non giovava all’interesse del nostro Paese. E a quel punto, per evitare che il negoziato si complicasse, ho chiesto e ottenuto una linea di comunicazione più attenta».
Non teme che il dialogo si spezzi di nuovo?
«I miei vicepremier sono lungimiranti e hanno interesse a riformare questo Paese e a farlo crescere».
A chi sente di dovere dire grazie?
«A tutti i miei ministri, e anche ai parlamentari che hanno dovuto pazientare e non hanno potuto procedere speditamente, in attesa che la trattativa fosse conclusa. E il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha seguito come sempre il negoziato da vicino, con attenzione e saggezza, senza farci mancare il suo pieno sostegno».
Rimane il mistero di Conte, descritto dagli avversari come «premier senza qualità», che riscuote una popolarità imprevista e strappa un «placet» non scontato alla manovra.
«Credo che l’opinione pubblica percepisca che ci stiamo impegnando intensamente per mantenere le promesse. E apprezzi che su reddito di cittadinanza e pensioni siamo stati intransigenti e le promesse le abbiamo mantenute, anche se sarebbe stato semplice cedere».
Lei non va molto in tv. Come mai?
«I miei collaboratori vorrebbero che ci andassi di più. Ma la sovraesposizione mediatica non si addice al mio carattere, e non è sempre funzionale a incrementare il consenso».