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 2018  dicembre 20 Giovedì calendario

«Vorrei poter dire Elena Ferrante sono io». Intervista a Jhumpa Lahiri

Dalla febbre Ferrante non è mai stata immune. Anzi. «Ero sul palco del Mercadante a ritirare un riconoscimento che mi fa felice e quindi mi sono persa l’ultima puntata della serie. Ma la recupererò, sono anni che la seguo, ho capito di recente che ne sono stata ispirata», dice con la sua grazia, a tratti enigmatica, Jhumpa Lahiri. Ventiquattr’ore di lente camminate, lungomare e vicoli per l’autrice anglo-indiana che ormai vive tra l’Italia e gli Usa e scrive in italiano i suoi libri, da ieri Premio Napoli sezione Internazionale, per Dove mi trovo (Guanda). Dopo la pizza fritta mangiata a Forcella, si comincia a parlare del suo legame di lettrice conL’amica geniale, si finisce con un affascinante dialogo letterario (fatalmente evocativo, nella città-perno della tetralogia) con Domenico Starnone nella sede della Fondazione guidata da Domenico Ciruzzi. Temi: spaesamento e conflitti tra più identità personali. Poi Jhumpa associa a Domenico giocosamente il merito, tra tanti, di averle fatto assaggiare gli "struffoli", tipico dolce natalizio partenopeo. L’autore, sorridente e appassionato nella sua indagine sulla « straordinaria narratrice», si irrigidisce solo di fronte al pur garbato accostamento della sala tra il suo nome e l’autrice de L’amica geniale. «Non mi fa felice questo riferimento. Lo dico subito: io non sono Elena Ferrante», chiarisce lui. Poco dopo, incalzato dai cronisti: «Sì, è vero, ho parenti al rione Luzzatti (interamente ricostruito per la fiction internazionale, ndr), cui voglio bene, ma non li vedo da cinquant’anni, fine delle domande su Ferrante», invoca Starnone. In hotel o in giro è rimasta sua moglie, la traduttrice e saggista Anita Raja: l’altro nome dietro alla Ferrante che, per un attimo, in quella sala, a tutti è balenato in mente e che nessuno ha pronunciato.
Jhumpa, le è piaciuta la trasposizione de L’amica geniale per la tv di Costanzo?
«Molto. Ero incuriosita da tempo, mi chiedevo quale sarebbe stato il suo approccio e la prospettiva con cui un regista poteva tradurre e convertire tutta quella storia e la sua sostanza. E mi è piaciuto quel lavoro: di filtro personale e di fedeltà al sedimento e alla temperatura dei personaggi. Tra l’altro scopro che in questo periodo sto tornando spesso alla mia lettura e al mio legame con i libri della Ferrante».
Spinta da cosa?
«A Siena, poche settimane fa, all’università abbiamo parlato della sua opera con la docente Tiziana de Rogatis che ha scritto un libro illuminante, Parole chiave (e/o): nel leggerlo, ho scoperto una certa corrispondenza tra il mio Dove mi trovo e i temi di Lila e Lenù : come l’idea che tutto giri intorno a un vuoto fisico e anche esistenziale. Tiziana ad esempio scrive dell’"antitesi tra appartenenza e sradicamento" e questa chiave è anche una lettura dei miei libri».
La "smarginatura" in cui rischia di liquefarsi Lila è vicina alla sua protagonista donna, che sente tutto scivolare intorno a lei, senza certezze?
«Sì, perché tutto verte sull’idea che i confini non sono certi, il radicamento vero non esiste e l’identità è sempre fluida. Questo è molto presente nella tetralogia. Ovviamente io non pensavo assolutamente alla saga di Ferrante quando ho scritto. Ma adesso vedo temi che ci legano. D’altro canto, la scrittura è sempre un risposta alla lettura. E sono molto colpita dal legame forte che in questo periodo riesplode anche grazie la serie».
Nel 2014, ha scritto alla Ferrante una lettera pubblica, a cui lei ha risposto, dicendole che avrebbe voluto avere lo stesso coraggio di diventare "invisibile". Lo pensa ancora? La "invidia" sempre, per questo?
«In un certo senso è così. In quel periodo ero a Stoccolma, presa tra presentazioni, promozioni, incontri: le cose che facciamo noi autori. Il paradosso, per così dire, è che noi che ci mostriamo continuamente siamo più spinti ad assumere una maschera o ritrarci. Mentre io, che avevo letto Frantumaglia della Ferrante, mi accorgevo di come lei, dietro la scelta di rendersi non raggiungibile fisicamente, fosse in realtà più aperta, più solerte nelle risposte ai lettori, più trasparente, più capace di aprirsi».
Molti pensano che Starnone o sua moglie siano la Ferrante. È solo un gioco o è giusto che i lettori siano curiosi?
«No, io penso le dobbiamo rispetto. La scelta di questa autrice è ormai chiara e netta. La cosa per me fondamentale è leggere i suoi testi: se queste sono le condizioni, a me va benissimo. D’altro canto la gran parte degli autori che mi hanno formato, cui resto legata per sempre, sono scomparsi da tempo. Non è indispensabile una relazione con loro».
E come procede il suo personale "romanzo"? Si sente spaesata o riesce a ridurre le distanze tra le sue diverse culture?
«Più vado avanti più mi torna in mente l’immagine che usava mia madre, bengalese trapiantata negli Stati Uniti: stare con un piede in una barca e l’altro piede nell’altra.
Sotto, però c’è l’acqua e devi tenerti in equilibrio. Più vado avanti, più mi accorgo di replicare quella metafora. Che forse è anche una postura di vita».