la Repubblica, 20 dicembre 2018
I soldi bruciati in 83 giorni
A giudicare dalle reazioni soddisfatte e neppure troppo imbarazzate del governo, è come se in questi ottantatré giorni non fosse successo nulla. Come se nel tempo trascorso tra la” notte del balcone” e oggi, tra la festa dello sforamento del deficit – con tanto di pugni alzati e dita in segno di vittoria – e l’attuale ingloriosa retromarcia sulla manovra, l’economia italiana avesse aspettato tranquilla alla finestra, senza subire alcun contraccolpo per i mesi inutilmente persi. Ora che le lancette del deficit e del Pil sono tornate al punto di partenza, quello segnalato fin dall’inizio dai tecnici del Tesoro (volgarmente insultati in tutti questi mesi proprio per il loro pacato realismo), ci accorgiamo invece che da quella ubriacante notte del 27 settembre molto è cambiato, e in peggio, per la nostra economia. E il peggioramento è ancora più marcato se torniamo indietro fino all’inizio dell’avventura governativa gialloverde, alla fine di maggio, quando già si annunciava la sfida sovranista dell’Italia all’Europa.
Insomma, se per il governo il braccio di ferro con Bruxelles si è risolto in un deprimente gioco dell’oca con salto indietro finale alla casella di partenza, per Stato, imprese e famiglie non si è trattato affatto di uno scherzo.
I conti dell’inutile sacrificio partono dallo spread, l’indice di affidabilità del nostro debito pubblico. Già con le sole aste di inizio ottobre, subito dopo il tripudio di piazza, il Tesoro ha dovuto mettere in conto 730 milioni di euro in più di spese per interessi rispetto a quanto avrebbe fatto con i rendimenti fermi ad aprile. E se è vero che dopo il dietrofront del governo lo spread è sceso dai picchi di novembre, resta pur sempre alto e supera di cento punti il livello che aveva durante il governo Gentiloni. Cento punti in più significano, ogni anno, tra i 2 e i 3 miliardi di costi aggiuntivi per lo Stato, per via degli interessi da pagare ai sottoscrittori di titoli. Quanti investimenti in più si potrebbero attivare con 3 miliardi? Quante spese sociali? Quante tasse in meno?
Ma questo è solo uno dei tanti prezzi che paghiamo per essere andati lancia in resta e senza ragionevoli motivi contro l’Europa e i mercati. Dall’esordio del governo pentaleghista a oggi la ricchezza finanziaria del Paese si è ridotta di 89 miliardi, tra azioni, obbligazioni e titoli di Stato. Sono quasi 1.500 euro di perdite per ciascun italiano. Si dirà che sono perdite virtuali e che tali resteranno fin tanto che quei titoli non verranno venduti. Ma come pensiamo si possa risollevare l’indice di fiducia delle famiglie che si vedono decurtare una fetta dei propri risparmi? Saranno invogliate a consumare di più o aspetteranno tempi migliori? E che dire di quanti hanno acceso mutui a ottobre e novembre, che, come conferma l’Abi, pagheranno più di quanto avrebbero fatto se avessero firmato nei mesi precedenti? Per le banche, poi, la svalutazione dei propri Btp significa essere costrette a finanziarsi e a prestare denaro a costi maggiori.
Se, infine, ai molteplici guasti provocati dallo spread si aggiungono le incertezze di una manovra ondivaga e per di più concentrata sulle spese correnti, si comprende perché le imprese italiane abbiano messo il freno a mano a investimenti e produzione, deluse dalla mancanza di misure per la crescita e sconcertate da un aumento delle tasse di 5- 6 miliardi. E se tra luglio e settembre il segno del Pil è diventato negativo, gli imprenditori sono convinti che molto dipenda proprio dall’incerto zigzagare del governo, fra tronfi proclami anti- europei e precipitosi dietrofront.
Quel che alla fine ci resta è solo il pesante fardello di un gioco dell’oca finito male, dal quale sono rimaste fuori tanto le fragili promesse di crescita quanto le roboanti minacce di cartapesta. Fuori, come un balcone.