Libero, 20 dicembre 2018
La profonda rivoluzione estetica del Rigoletto
Nel novembre 1832 vi fu la prima rappresentazione del dramma, subito proibito, di Victor Hugo Le roi s’amuse, fonte del Rigoletto di Verdi. «Forse il più gran dramma dei tempi moderni. Tribolet è creazione degna di Shakespeare!», scrive il Maestro. Degno di Shakespeare, per profondità e forza drammatica, è il suo carattere ben più di quello di Hugo. Nel dramma francese Verdi ritrova i temi fondamentali della sua creazione: l’amor paterno, il senso dell’onore. Manca l’amor di patria; ma v’è l’eros inteso quale sacrificio e sublimazione, il modo che a lui interessa. Pure, riesce a cantarvi l’eros in sé, quale sfrontatezza e gioioso cinismo, nello straordinario personaggio del Duca. Questo è un vero tratto shakespeariano: come l’occhio di Dio, i due sommi artisti possono raffigurare anche tutto ciò ch’è a loro alieno. Interessante l’equivoco estetico per il quale Hugo viene accostato al Bardo. In molte sue Tragedie personaggi comici fanno da contrappunto all’azione. È lo stile del teatro barocco, pur se il becchino dell’Amleto dietro le battute ci dia i brividi. Ma questi ruoli buffoneschi sono affatto estranei all’azione principale. Il colpo di genio di Hugo sta invece nel fare protagonista di una Tragedia un essere ch’è la personificazione stessa del laido. Triboulet, giullare del re di Francia, è gobbo, infame, gode del male che commette e al quale incita come sola vendetta per la sua deformità fisica e morale. L’indagine della sua psiche è il centro del testo francese. Il colpo di scena, che mostra la doppia anima del buffone, è che abbia una figlia e sia capace di amarla in modo geloso e protettivo. La grande idea si traduce in una grande opera d’arte? Non ne sono certo. La metamorfosi la compie Verdi.
TRASFIGURAZIONE IDEALE
L’estetica del teatro musicale, sebbene quello comico di Rossini conosca sia il realismo che il grottesco, resta nell’Ottocento strettamente classica. Il sentimento in sé conta più del carattere che lo prova. Solo Verdi, sin dall’inizio della sua creazione, raffigura per intero caratteri, i sentimenti dei quali evolvono a seguito dell’azione drammatica. Ma pur sempre attraverso il mezzo artistico d’una trasfigurazione ideale. Per la musica il grande interrogativo è: come si fa a rappresentare artisticamente ciò ch’è deforme e infame senza che lo stile divenga esso stesso deforme e infame? Ecco l’abisso che separa Verdi da Hugo, il teatro musicale dal teatro di parola. Non consideriamo ancora la fremente anima paterna di Rigoletto: questa si scopre solo a metà del primo atto. All’inizio abbiamo una musica asimmetrica, dissonante, volgare: in certi punti essa mima lo stesso incedere zoppo del gobbo. La prima immagine di qualcosa di simile si trova in un’altra composizione geniale, l’ultimo tempo della Sinfonia fantastica di Berlioz, di oltre vent’anni precedente. Ma Verdi possiede una sintesi e una sicurezza stilistica che il sommo Maestro francese acquisterà solo in seguito. L’assioma estetico dei due compositori è: la raffigurazione dell’abbietto è possibile alla musica solo se si abbia contemporaneamente l’affermazione di ciò ch’è la bellezza in senso ideale. L’orrido non può in musica esistere di per sé, ma solo in quanto opposto alla bellezza classica. Né hanno senso le sfrontate canzoni del Duca se non in rapporto alla profondità e nobiltà di sentimento di Rigoletto e sua figlia Gilda. Sarà esattamente la stessa scelta compiuta da Wagner per raffigurare i suoi personaggi laidi, Mime, Alberich e Beckmesser. Il paradosso, non chiaro a tutti, è dunque questo. La rivoluzione estetica del Rigoletto è assai più profonda e importante, oltre che alta sul piano del valore, del dramma di Hugo; ma mentre esso rovescia le categorie dell’estetica classica, il Rigoletto la stabilisce ancora una volta. Affermare che un nesso diretto stringe Verdi a Orazio e Virgilio può parere ardito; ma persino Wagner, che per non belle ragioni politiche affetta di disprezzare la latinità, senza di loro non sarebbe; e non dico di Berlioz, il più grande virgiliano della musica, oltre che con Verdi il più grande shakespeariano.
PERFETTA REGIA In Verdi un altro miracolo artistico rampolla dalla stessa fonte. Ogni particolare della sua musica contiene la rappresentazione drammatica: non solo il sentimento espresso dalla parola, lo stesso gesto. È la più perfetta e insostituibile regia. In ciò, solo Mozart gli è pari. Ancora una volta, sembra che la musica si faccia “altro da sé”; e invece nel Maestro italiano questo coincide con la più severa forma musicale. Solo ai sommi della musica è dato sciogliere questa contraddizione in termini. Esprimo tali considerazioni visto il gran parlare che del Rigoletto si è in questi giorni fatto dopo due diversissime messinscene, l’una all’Opera di Roma, l’altra al Teatro Lirico di Cagliari. Pare superfluo ricordare che con la regia la musica di Verdi contiene persino l’ambientazione, naturale e scenografica; e solo il rispetto di essa attua la verità artistica della sua creazione (ciò vale anche per l’allestimento dell’Attila che ha aperto la stagione della Scala!). E il Rigoletto è la massacratissima fra le Opere di Verdi per le violazioni del testo musicale: tagli, aggiunte di pause, storpiature, note alterate, inaccettabili cambi di tempo, “parlando”, effettacci che per voler realizzare il grottesco sono solo grotteschi. Basta ascoltare anche le più celebri incisioni. A Cagliari la regia di Pier Francesco Maestrini, con le scene di Juan Guillermo Nova, reintroduce la Mantova di Giulio Romano e il Mincio, in luogo della Repubblica Sociale dell’Opera di Roma. Soprattutto, a Cagliari un grande direttore e concertatore, Elio Boncompagni, ripristina la classicità della partitura: trasparente l’orchestrazione, sì da mostrare quanto cameristica essa sia; plastico il contrappunto; stacchi di tempo in rapporto fra loro come in una Sinfonia classica; e la volontà di Verdi attuata fino in fondo. Ho sentito qualcuno commentare: «Non sembra Verdi, sembra Beethoven!». Questa sancta simplicitas voleva dire una verità più grande: Rossini e Verdi sono, insieme, il nostro Mozart e il nostro Beethoven.