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 2018  dicembre 20 Giovedì calendario

«Ci vuole grande talento per diventare un fallito». Intervista allo scrittore Yannick Haenel

Il nuovo romanzo dello scrittore francese Yannick Haenel è una storia di grandezza e di visione nell’arte, scritta in modo così solenne che sembra già un classico. E tuttavia non c’è ombra di noia o retorica in alcuna delle sue pagine. Il protagonista del pluripremiato e acclamato dalla critica Tieni ferma la tua corona (Neri Pozza, pagg. 272, euro 18, trad. di Giovanni Bogliolo) è Jean Deichel, «l’ego sperimentale» di Haenel – ex professore e fondatore della rivista letteraria Ligne de risque: entrambi scrivono, entrambi guardano alla vita come alla più riuscita forma di straniamento tossico, entrambi puntano all’assoluto nell’arte. Vasto programma.
Deichel – che era già comparso in almeno due romanzi di Haenel – prova qui a realizzarlo con una sceneggiatura elefantiaca, dal titolo «The Great Melville», dedicata a quella incontenibile catastrofe solitaria che fu la vita dell’autore di Moby Dick. Per fare un film da un’opera che promette il fallimento fin dalle premesse, Deichel pensa a un regista unico: Michael Cimino. E nel tentativo di farglielo incontrare, Haenel popola la narrazione di apparizioni, tra cui Isabelle Huppert e Emmanuel Macron nei panni di un maître di ristorante. Il libro potrebbe presto diventare un film: Louis-Do de Lencquesaing sta lavorando all’adattamento. Vorrebbe girarlo con Isabelle Huppert nella parte della Huppert e nel ruolo di Cimino vorrebbe Christopher Walken.
Haenel, l’hanno definito folle e assurdo. Ma come nasce questo romanzo?
«Come una fiaba notturna, un puzzle costruito con i tentativi di una persona che ha bevuto troppo di ricordarsi dove sono le cose che ha perso. Il denaro, il telefono, il suo dalmata Sabbat, l’amore».
E quando ha preso vita il suo alter ego, Deichel?
«Ho inventato il personaggio di Deichel dieci anni fa, per creare una traiettoria verso tutte le avventure possibili. Lui è il mio doppio: quello che mando di notte a vivere le avventure e che mi permette di ridefinire un eroismo senza exploit, molto quotidiano. La domanda che cerco di porre con questo personaggio è: si può vivere senza essere sotto scacco con la società? C’è un punto di solitudine in noi che sfugge alla fatica esistenziale e sociale: Deichel non vuole più partecipare: preferisce stare a casa a guardare dei film, consacrarsi a una ricerca personale che insegue categorie nuove che la società non registra. All’inizio del XXI secolo cerca una forma di verità».
Perché l’alcol è necessario in questa ricerca?
«Creare un personaggio che beve molto è una possibilità per evadere dalle limitazioni del romanzo realista: l’alcol rende possibili le allucinazioni e il dubbio su ciò che stiamo vivendo. Volevo anche esplorare allo stesso tempo l’estasi e i postumi della sbronza, che sono un rivelatore ontologico molto importante».
Un lasciapassare per altri mondi?
«Per me l’alcol è la libagione sacra per entrare in una iniziazione mitologica. Jean Michel Basquiat quando andò al MoMA versava con discrezione in ogni sala un po’ di alcol. Era un rito voodoo per ingraziarsi gli spiriti degli artisti bianchi, visto che lui era il primo pittore nero sulla scena americana e sentiva parecchio la pressione».
L’alcol evoca anche fantasmi di celebrità, come la Huppert e Macron?
«All’epoca detestavo Macron. Non era presidente, ma era ministro dell’economia e aveva detto una frase oscena: Che tutti i giovani in Francia sognino di essere miliardari».
In tutto il romanzo si evoca Michael Cimino. Come un’ispirazione, un culto. Il culto del fallimento grandioso?
«La prima ispirazione è stata per me il personaggio fisico di Cimino: una creatura misteriosa, sparita dalla circolazione dopo essere stato così celebre, che ha fatto sparire anche il suo viso grazie alle molteplici operazioni chirurgiche, tanto che divenne impossibile distinguere una precisa polarità sessuale. Si vociferava che fosse diventato donna».
E il suo significato come cineasta?
«Per me lui è un cineasta politico, molto più che Coppola. Godard è l’ultimo grande cineasta intellettuale europeo, Cimino è il contraltare in versione cowboy, un Proust con lo Stetson».
Anche lei ha scritto, come Deichel, una sceneggiatura impossibile...
«Sulla rivoluzione francese. Ma non andava bene a nessuno perché era troppo letteraria. Allora ho pensato: ma chi l’avrebbe mai realizzato un film così? Cimino».
O l’assoluto o niente: così lei pensa alla letteratura?
«Penso a una specie di fede cieca, che è la volontà di credere che la letteratura possa permettere di modificare la realtà e reinventare la vita attraverso l’ebbrezza che produce. Nel libro c’è questa fede: non in Dio, ma nella poesia».
Prima di lei chi altro ci è arrivato e la influenza oggi?
«Beckett, Proust, Musil: amo tutti i poeti in prosa. Il mio sogno è creare un personaggio che sia un mix di Buster Keaton e San Francesco d’Assisi che aspettava Godot. Un santo e un buffone».