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 2018  dicembre 19 Mercoledì calendario

Pierfrancesco Favino: «Io, un moschettiere al servizio della Storia»

La chiacchierata con Pierfrancesco Favino inizia in un bar all’Aventino e si conclude al telefono dal Brasile, dove il d’Artagnan di Moschettieri del re firmato da Giovanni Veronesi (in sala dal 27) si è già trasformato nel Buscetta di Marco Bellocchio, Il traditore. Si va arricchendo di nuovi fascicoli la personalissima raccolta di ritratti in chiaroscuro dei protagonisti della storia del nostro paese, da Bartali a Buscetta, da Ambrosoli a Craxi. A far da controcanto il Favino comico: verdoniano e ora monicelliano nel moschettiere natalizio con un accento francese che affianca Valerio Mastandrea, Rocco Papaleo e Sergio Rubini. Infine, la versione pop che il grande pubblico ha scoperto sul palco del Festival di Sanremo.
Favino, quanto vale per un attore interpretare D’Artagnan?
«Tra nove e dieci. Da adolescente ero innamorato di quel mondo, da Dumas alle trasposizioni parodistiche di Topolino, ai film, ai giochi con le spade di legno».
Il suo moschettiere preferito?
«Ho sempre avuto grande simpatia anche per Porthos, ma da attore sono contento mi sia capitato D’Artagnan, facevo il tifo per lui da ragazzino».
La versione cinematografica preferita?
«La base d’ispirazione è sempre stato il libro, un totem della letteratura, sottovalutato rispetto a quello che realmente vale».
I vostri moschiettieri sono accessoriati come Bond.
«Nel mio caso più Johnny English... La grande intuizione di Giovanni è stata immaginare una zona Cesarini di questi quattro, inadatti a ogni altro ruolo nella vita, che indossando di nuovo le tutine da supereroi ritrovano le loro qualità».
Il film guarda a Monicelli….
«All’Armata Brancaleone, ad Amici miei, ma anche a Non ci resta che piangere. Noi abbiamo avuto un cinema che, partendo da situazioni storiche sapeva raccontare il quotidiano attraverso la farsa. E questa dimensione da cartone libera gli attori».
I colleghi ammirano il suo andar a cavallo e tirar di spada.
«Mi entusiasma fare queste cose. Ma ricordo anche una giornata a duellare nel caldo infernale, con Papaleo che senza occhiali non vede oltre un palmo».
Le dinamiche tra voi quattro corrispondono ai personaggi?
«Sì, Sergio è quello colto, posato, Rocco il silenzioso che poi ha la stoccata verbale e sa ascoltare. Valerio è quello che ti parla dei suoi problemi. Io il più dinamico e attivo, se c’è da organizzare una gita o una cena. Si è creata un’amicizia vera, suggellata da un viaggio in barca da La Spezia alle Cinque terre, solo noi quattro in sintonia perfetta, anche senza parlare. Conservo le foto di quella giornata e quando le guardo il sapore di questa cosa mi ritorna. Ma è straordinario anche stare qui sul set con Bellocchio a Rio per la parte brasiliana di Il traditore. Avevo un desiderio fortissimo di lavorare con Marco e di interpretare questo personaggio così complesso e intricato».
Cosa della personalità di Buscetta l’ha colpita di più?
«Il fatto che quest’uomo, figlio di vetraio, quindi una persona che fa gli specchi, per tutta la vita continua a cambiare la sua faccia, a tentare di non assomigliarsi. E per tutta la vita al contempo fa una battaglia per la sua verità, dicendo che lui era sempre quello, continuando a considerarsi un mafioso tradizionale, che non ha tradito. Questo contrasto mi ha attratto anche perché è vicino alla vita di un attore, che passa di ruolo in ruolo cercando di cancellarsi e vivere le vite di altri e alla fine come risultato vive un’unica vita molto bella».
Lei sta cucendo al cinema una sua "storia di un italiano": Bartali, Buscetta, Pinelli, Ambrosoli…
«La cosa strana è che tra alcuni di loro ci sono meno gradi di separazione di quelli che immaginiamo. Penso a Pinelli e a Buscetta: non sapevo che l’avvocato difensore di Buscetta, Luigi Li Gotti, avesse tutelato anche la famiglia del commissario Calabresi dopo piazza Fontana. È come se dei fili si fossero intrecciati. E poi attraverso i personaggi noi raccontiamo sempre il Paese e le sue contraddizioni. Una parte della storia d’Italia è una democrazia fondata sui misteri. Ci sono tante cose su cui bisognerebbe fare luce e se il cinema può servire anche solo a tirar fuori dei temi, è già una bella possibilità».
Ogni regista è un mondo diverso.
«Sì. Veronesi è una festa, sa creare un gruppo unito, un’atmosfera che mi piace pensare monicelliana, anche se non ho mai lavorato con Monicelli. Marco ti coinvolge, ti ascolta, sento la sua fiducia totale. Ho imparato da Tornatore, Placido, Montaldo, Negrin. Con Muccino siamo cresciuti insieme. E ho un rapporto speciale con Amelio: è uno che capisce lo stato d’animo di un attore, la solitudine davanti alla macchina da presa».
Con Gianni Amelio si lancia in una nuova sfida: interpretare Bettino Craxi in "Hammamet".
Qual è l’immagine più forte che ha di Craxi?
«Avevo diciotto anni quando c’è stato il lancio delle monetine al Raphael. È stata la rottura di un velo. A quell’età io avevo il diritto di pensare che come individuo avrei potuto cambiare le cose e si è rotto il velo, la fiducia nelle ideologie, il senso di appartenenza sono venuti meno. Pian piano la politica è diventata altro. Ci fu chi si tolse la vita per non andare in carcere e perdere la reputazione. Che, dopo, non è stata più un valore: oggi siamo in balia delle chiacchiere, non si pagano le conseguenze di contraddizioni, delle promesse non mantenute. Tengo a dire una cosa: io scelgo di non parlare di politica perché quello che penso lo dico attraverso il mio lavoro, assolutamente giudicabile».
E poi è arrivato il colpo di scena: presentare Sanremo.
«Con la sfida e la paura di Sanremo mi sono regalato la possibilità, con un gesto impudico per me che sono timido, di essere me stesso, far vedere alle persone chi sono, cosa mi diverte. Ma le crisi ci sono state, vengo da una famiglia semplice, ho imparato a non dare niente per scontato».
Baglioni la chiama per il Sanremo 2019?
«Esiste un pre e un post e quello che mi arriva ora lavorativamente deriva anche da Sanremo. Sarebbe stato ruffiano ringraziare il pubblico l’anno scorso. Ma se Baglioni e la Rai mi dovessero chiamare anche solo per dire "Ciao e grazie" ci andrei molto volentieri».