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 2018  dicembre 19 Mercoledì calendario

Così mio padre Togliatti mi abbandonò in una clinica

L’Uomo Nuovo morì là dove avrebbe dovuto nascere. Dentro le camerate austere della Scuola per l’Infanzia di Ivanovo, col capo rasato e l’obbedienza monacale, i figli dei capi comunisti venivano allevati come figli del Partito, nello spirito pedagogico siberiano di una Sparta severa che si proponeva di “temprare l’acciaio” di una generazione eroica. Ma al figlio del Migliore toccò la sorte peggiore. Perdere i genitori, e perdere se stesso.
Era il 1993 quando, tra l’imbarazzo dei dirigenti di un partito da poco non più comunista, trapelò la notizia che Aldo Togliatti, figlio del segretario generale del Pci e della sua prima moglie Rita Montagnana, di cui si erano perse le tracce, era ricoverato da anni in una clinica privata per malattie mentali nei dintorni di Modena, con una diagnosi di schizofrenia. Vi morì molti anni dopo, nel 2011, senza aver mai raccontato pubblicamente la sua storia. Gliela fa raccontare ora uno psichiatra, che non lo conobbe, Giovanni De Plato, con la forza e la libertà del romanziere. Il figlio del Migliore (Pendragon) è l’immaginario dialogo fra Aldo e il giovane medico che lo assiste; ed è il racconto della catastrofe etica e privata di una generazione di rivoluzionari di professione.
Aldo era nato nel momento più sbagliato, nel 1925 dell’alba fascista. Quel giorno suo padre era in carcere. Un’infanzia scandita dai rintocchi della Storia: costretto a seguire i genitori nei tormentosi esili politici, cresciuto giocando nei corridoi dell’Hotel Lux di Mosca, ignaro delle trame micidiali che s’incrociavano in quelle stanze del sospetto staliniano.
Rendendosi progressivamente conto, allora come dopo il ritorno nell’Italia liberata, di essere «un inconveniente» nella vita dei suoi genitori troppo presi dalla Storia per pensare a lui, «un intruso, uno sbaglio della loro passione». Un «bambino mai stato bambino», lasciato a se stesso, inghiottito da un vortice di amore e odio assoluti per “il Vegliardo”, il padre che smetterà di chiamare per nome, di cui rifiuterà di portare il cognome, per lui «morto prima che morisse» ma incombente con quella sua esortazione ossessiva, «sii uomo perdio!», condanna più che monito.
Eppure, se per un attimo dimentichiamo la storia e il posto che i protagonisti vi occuparono, questo libro non sarebbe altro che la narrazione, forse neppure troppo appassionante, di un abbandono genitoriale come tanti. Un padre assente, distratto, immerso nel suo lavoro; una madre stanca e tradita; un figlio che si perde. Lo confessa Aldo stesso al suo medico, in un lampo di consapevolezza della banalità del suo male: «Una normale vicenda umana, come quella di tante altre famiglie, dove la politica non aveva aggiunto nulla, anzi aveva tolto: a me tutto». La politica aggiunge invece molto, forse tutto, al romanzo biografico. Aggiunge un giudizio che trascende le responsabilità degli individui per ergersi ad atto d’accusa politico contro la presunzione del rivoluzionario che sogna di riscattare l’umanità e calpesta gli umani. Sentenza senza attenuanti. Se De Plato concede alla madre di Aldo (seconda voce narrante del romanzo) il beneficio del rimorso, del tormento, del tardivo sacrificio di sé per tentare di salvare il figlio, è solo perché anche lei gli appare vittima dell’uomo che incarna quel simbolo negativo.
A Togliatti, l’autore psichiatra non permette invece profondità e contraddizioni: colpevole assoluto, senza diritto di parola, è un uomo a una sola dimensione. Analisi psicologica acuta delle ferite imposte agli affetti familiari da una scelta di vita ideologica, questo romanzo lascia tutti a indagare i meandri della mente del rivoluzionario che quella scelta consapevolmente volle fare.