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 2018  dicembre 19 Mercoledì calendario

Intervista ad Alberto Manguel: «Vivo sognando i miei libri perduti»

È paradossale ma l’ex ragazzo che leggeva a Borges ormai cieco, l’autore di Una storia della lettura, l’uomo dei libri, per banali ragioni di spazio, non dispone più della sua biblioteca personale. Alberto Manguel, apolide di Buenos Aires, settant’anni portati con lo sguardo e la barba di Socrate, ha detto addio ai 40 mila compagni della vita in un giorno di giugno del 2015. Quando lasciava l’antica canonica di un paesino sperduto della Loira, acquistata nel 2000 proprio con lo scopo di ospitare la sua collezione, per tornare in America. Prima in Argentina, dove, fino all’agosto scorso, ha diretto la Biblioteca Nazionale, occupando il posto che fu di Borges. E poi a New York, dove vive adesso in un appartamento non adatto ai magnifici 40 mila. Che "riposano" in un deposito di Montreal, Canada, chiusi nelle casse da più di tre anni. «Mi mancano ogni giorno, ogni ora, che sia sveglio o dorma», dice lo scrittore. A loro Manguel ha dedicato Vivere con i libri, un memoir (Einaudi) e una dichiarazione d’amore, indispensabile per chi ama ancora la carta.
Manguel, lei i suoi libri li sogna davvero?
«Sogno di essere nella mia biblioteca svanita, sogno di scorrere le file dei libri per cercare quello che voglio rileggere. Anche se i libri sono chiusi nelle loro scatole in un magazzino di Montreal messo a disposizione dal mio editore del Québec, nella mia mente si trovano ancora sugli scaffali. Sento che mi chiamano dal luogo in cui sono stati sepolti prematuramente, in attesa di tornare a vivere. Non so se e quando accadrà. Vorrei che diventassero parte di una biblioteca dedicata alla storia della lettura da aprire a New York. Magari un bibliofilo filantropo, leggendo queste parole, potrebbe offrirsi di dare ai miei 40 mila libri la casa di cui hanno bisogno».
Nel suo memoir scrive che prestare un libro è un invito al furto. Preferisce regalarli. Quali libri ha regalato di più?
«Ho regalato infinite copie di Un mese in campagna di J.L. Carr, L’Uomo che fu Giovedì di Chesterton, La civetta cieca di Sadeq Hedayat, La bestia deve morire di Nicholas Blake, La vita agra di Luciano Bianciardi e tanti altri».
Lei per la sua aveva scelto di ordinare i libri dividendoli secondo la lingua. Ma qual è il modo migliore di organizzare una biblioteca personale?
«Bisogna immaginare di realizzare una mappa. Il vantaggio di organizzare una propria biblioteca è che la mappa non deve essere chiara a nessuno, se non a noi. Ci sono alcune domande preliminari che dobbiamo farci. Come usiamo la nostra biblioteca? Come troviamo un determinato libro? In che modo identifichiamo nella nostra testa un’opera o un autore? Le risposte a queste domande sono gli indizi che ci permettono di capire come procedere. Nel XIII secolo, Richard de Fournival suggeriva che la biblioteca dovesse essere come un giardino in cui le trame dei fiori agiscono da sezioni tematiche. Aby Warburg organizzò la sua secondo le sue associazioni: se pensava a Botticelli come al pittore della storia di Nastagio degli Onesti, allora collocava una monografia dell’artista accanto al Decameron di Boccaccio. Ecco: una biblioteca oscilla tra il meticoloso ordine dell’ortocultura di Fournival e la libertà anarchica di Warburg».
Scegliendo dalla sua libreria, a quali copie personali è più legato?
«I libri diventano talismani, rimandano alla memoria di persone che ci sono state care o di luoghi in cui sono accaduti eventi fondamentali. Penso alla copia di Stalky & C. di Kipling che Borges aveva letto da adolescente e che lui stesso mi diede come regalo d’addio quando, da ragazzo, ho lasciato l’Argentina. Le Romanze spagnole di mia madre che lei cantava a squarciagola in casa. Alice annotata di Martin Gardener, su cui sono tornato tante volte negli anni. E una versione tascabile della Divina Commedia, identica a quella su cui Borges imparò l’italiano, viaggiando da una piccola biblioteca municipale all’altra, in un periodo in cui era molto infelice».
Scrive di aver collezionato poco, quasi nulla, di Maupassant. Ci sono autori importanti del passato che non ama?
«Ho un paio di raccolte di racconti brevi di Maupassant, ma penso a lui come a un Cechov molto minore: L’Horla è il più brutto horror mai scritto. Amo profondamente Dante, Tommaso d’Aquino e Mosè Maimònide (filosofo ebreo spagnolo del XII secolo, ndr), ma ho poca affinità con il loro comune maestro Aristotele: troppo prescrittivo rispetto al meravigliosamente libero Platone. Non amo D’Annunzio: mi sembra un esibizionista snob».
Quali libri porterebbe sulla classica isola deserta?
«Chesterton diceva che sull’isola deserta si sarebbe portato una guida pratica alla costruzione delle barche. Io invece sceglierei: La Divina Commedia, Le mille e una notte, i Saggi di Montaigne".
È vero che "Le Mille e una notte" è il libro che le ha fatto scoprire l’amore?
«A sei o sette anni, lessi una raccolta delle Mille e una notte con le illustrazioni di Edmond Dulac. Ricordo una delle prime storie, Il Re delle Isole Nere, in cui un’incantatrice malvagia che ha sposato un giovane re, lo trasforma in una colonna di basalto nero e lo frusta di notte, mentre lei fa l’amore con il suo schiavo nero. Questa immagine ossessionava i miei sogni, non tanto il rituale sadico, quanto il fatto che questo re potesse essere innamorato della donna malvagia. Che cosa significava? Come si può amare qualcuno che si sa essere il male? Ho trovato questa storia molto più avvincente delle facili love story di Biancaneve o Cenerentola. Ero affascinato dallo strano, oscuro, contorto amore del Re delle Isole Nere».
Nel suo libro scrive che è importante avere sempre a portata di mano anche brutti libri. Succede ancora?
«Certo. Per esempio ora ho una serie di romanzi americani recenti, tutti scritti nel rispetto delle formule dei corsi di scrittura creativa, tutti che raccontano vite disfunzionali a Brooklyn o giù di lì, con brutto stile e povertà d’immaginazione. Li conservo come esempi di cosa accade quando la fiction diventa solo un prodotto di consumo buono per il mercato».
L’estate scorsa ha lasciato la direzione della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires. Che esperienza è stata?
«La più straordinaria della mia vita. Per la prima volta ho vissuto le dinamiche interne della politica, dei sindacati e del governo, l’intrinseca avidità e l’ambizione personale che governa questi luoghi. La biblioteca è la casa di decine di persone di talento, di tanti giovanissimi, che vogliono solo fare al meglio il loro lavoro, ma la politica e la burocrazia glielo impediscono. Ha presente il balletto di Pina Bausch Café M?ller dove una donna in sottoveste con gli occhi chiusi come se dormisse danza in un locale pieno di sedie, mentre un uomo in nero va in giro rimuovendo le sedie dal percorso della ballerina? Ecco, il mio lavoro era come quello dell’uomo in nero: stavo lì a spostare le sedie che intralciavano le persone».
Ha mai sognato Borges mentre era direttore della Biblioteca?
«Appena prima di lasciare Buenos Aires, è successa una cosa che non mi so spiegare razionalmente. All’inizio di agosto, due giorni prima di partire, stanco di impacchettare i miei libri da inviare a New York, mi sono messo a passeggiare nei dintorni della Biblioteca. Buenos Aires è ancora una delle poche città piene di librerie di tutti i tipi. A quattro isolati dal mio appartamento, c’era un piccolo bookshop che vendeva testi usati, soprattutto scolastici e tascabili. Tra le pile piene di polvere, ho visto una collezione dell’Enciclopedia Labor, una serie pubblicata in Spagna nei primi decenni del XX secolo: ogni volume era dedicato a un soggetto specifico, dalla storia romana al romanticismo. L’occhio mi è caduto su una Storia della letteratura arabo- ispanica di Angel González Palencia, studioso molto noto all’epoca. Poiché sto scrivendo una breve biografia di Maimònide, ho pensato che questo volume potesse essermi utile e l’ho comprato subito senza pensarci. Tornato a casa, l’ho messo in uno scatolone. Arrivato a New York, è passato qualche giorno prima che mi occupassi dei libri da sistemare. Quando ho tirato fuori il saggio di González Palencia, ecco la scoperta. Sul frontespizio c’era scritto in una grafia per me subito riconoscibile "Jorge Luis Borges, 1934", seguito da una serie di citazioni del libro che Borges ha usato per scrivere La ricerca di Averroè, pubblicato per la prima volta nel 1947, e poi inserito nell’Aleph. Ero allibito. È stato un miracolo. Non credo nei fantasmi, ma non posso non pensare che Borges abbia voluto dare all’adolescente che aveva conosciuto, ormai diventato un uomo anziano, un altro, definitivo regalo d’addio».