Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  dicembre 19 Mercoledì calendario

La Cina sta armando alcuni Stati del Medio Oriente con droni killer

I droni armati stanno “proliferando” nei Paesi del Medio Oriente. Spesso è la Cina ad armarli, come nei casi di Giordania, Iraq, Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Altre vole (in Israele, Iran e Turchia) la produzione è fatta in casa. Non si tratta solo di un rinnovo degli armamenti: i droni sono in grado di cambiare le modalità d’attacco, di incoraggiarle. E a rimetterci sarebbe solo chi è in basso, a ricevere le bombe. Lo afferma un rapporto del Royal United Services Institute (Rusi).

La Cina arma il Medio OrienteSe non si ha la possibilità di produrre droni evoluti in autonomia, ci si rivolge alla Cina. Per almeno due motivi: la tecnologia disponibile è molto simile a quella offerta dagli Stati Uniti, ma a un prezzo inferiore e (soprattutto) con restrizioni minori. Pechino non aderisce al “Missile Technology Control Regime”, un accordo che impegna i Paesi firmatari (a oggi sono 35) a prevenire l’utilizzo di missili e armi autonome. La Cina non vende a chiunque, ma si tiene le mani più libere. Lo status dei droni è ancora poco definito e lascia ampi margini di manovra alle imprese produttrici.
L’acquirente deve essere uno Stato sovrano, con priorità riservata a quelli che conducono azioni per combattere il terrorismo. La teoria dice che i droni sarebbero un’arma efficace per colpire obiettivi precisi. La pratica non è così asettica e – sopratutto – la definizione di “terrorismo” è, in alcuni Paesi, quantomeno labile.

Come cambiano gli attacchi militari
Il rapporto del Rusi indica un “aumento massiccio delle vendite di droni in Medio Oriente”. Con diversi effetti sul campo. Alcuni Stati, come la Giordania e l’Arabia Saudita, posseggono forze armate e jet evoluti. Per loro il drone è soprattutto “una questione di prestigio” più che “una minaccia concreta”. Almeno fino a quando i velivoli autonomi non saranno molto più numerosi di adesso. Altrove (come Iran, Turchia e gli Emirati Arabi) il discorso cambia: i droni stanno già trasformando le modalità d’attacco, spingendo a cambiare la propria strategia e provare l’offensiva in scenari dove il timore di perdite umane avrebbero sconsigliato missioni aeree convenzionali. In altre parole: se a bordo non ci sono piloti, si azzarda di più.

Le nuove regole di Trump
La geopolitica dei droni non è fatta solo di ali e bombe. Vendere droni vuol dire fornire anche sistemi di monitoraggio e controllo. Sono temi assai sensibili, ancor di più quando si parla di Cina. Anche perché droni e sistemi asiatici finiscono non solo nelle basi di Paesi off-limits per le società statunitensi ma anche sulle piste di alleati come Emirati Arabi e Giordania.
Da qui è nata la spinta che ha portato la Casa Bianca ad allentare le restrizioni per la vendita di droni killer. Lo scorso aprile Trump ha allargato le maglie sulle esportazioni, ma secondo il Rusi gli effetti di questa mossa sono ancora nebulosi, anche perché potrebbero sciogliere i lacci commerciali solo fino a un certo punto.
È possibile che possa avere ripercussioni in Medio Oriente, ma è comunque difficile che rilanci una competizione diretta con la Cina. Potrebbero quindi mutare alcuni dettagli. Ma la sostanza non cambia: secondo il rapporto “è probabile” che gli acquisti di droni armati “aumentino ancora”. Con o senza gli Stati Uniti.