Il Messaggero, 19 dicembre 2018
Addio Totocalcio, il 13 finisce in soffitta
C’è qualche ragazzo che se gli dici ho fatto 13 ti guarda smarrito e compassionevole: per lui dovresti fare strike, uccidere il mostro, raggiungere l’ultimo livello, mission complete; se è più grandicello e scommette, parla di under, over, martingale, quota fissa e quant’altro. Non è lo stesso sogno: quello dell’1-X-2, del Totocalcio, da cui il prefisso toto è poi tracimato, il totoministri, al più alto livello, il totonomine ovunque se ne facciano. Il Totocalcio, che dette il via a tutto questo, appena un mese prima che l’Italia diventasse repubblica, se ne va. Un comma in una legge di stabilità (spesso basta qualche riga, si sa), una deroga al decreto dignità per aprire il campo a un concorso che accorpi Il 9 e Totogol, e il Totocalcio va in pensione senza aver raggiunto la quota cento. Però vorreste farlo lavorare ancora a 72 anni? È già un po’ che non lavora più. Lui che un tempo finanziava l’intero sport e le casse dell’erario, ma che i nuovi stili di vita, partite sparpagliate nel corso dei giorni e delle notti, la più facile tentazione della scommessa sportiva (o del videopoker perfido), era già morto da un pezzo. Ormai il montepremi di un anno quasi non copriva più quello del record del ’93, 34 miliardi delle vecchie lire (più il prelievo per lo sport e quello per l’erario). Lo inventò Massimo Della Pergola, giornalista ebreo che le infami leggi razziali costrinsero all’esilio: la scintilla s’accese in un campo profughi in Svizzera, il prigioniero Della Pergola rese poi tutti gli italiani per più di mezzo secolo prigionieri d’un sogno: il sogno della schedina vincente. Prima con 12 partite il cui risultato azzeccare, poi 13.
SIMBOLO
Il 13 che divenne un modo dire (era il 1951) in quell’Italia che s’apprestava a realizzare il miracolo economico Anche un 13 poteva essere un miracolo per qualcuno: non lo fu subito, perché il 5 maggio 1946, schedina aperta da un Internazionale-Juventus che è come dire Inter-Juve (vinse l’Inter: non c’era Cristiano Ronaldo né Spalletti) vide sì un solo vincitore, Emilio Biasotti, romano trapiantato a Milano, ma questi incassò soltanto 426.826. D’altra parte erano state stampati cinque milioni di esemplari e se ne giocarono appena 34 mila. Il resto finì ai barbieri per ripulire i rasoi della barba, come la facevano allora. Poi venne il primo milionario, all’ottavo concorso: una coppia, un disoccupato di Genova e una casalinga di Bologna, in quell’Italia che rinasceva; lo scommettitore cominciò a farsi anonimo anziché riempire la casella posteriore dove potevi dire nome, cognome e indirizzo (era una resa incondizionata al fisco). Cominciò la caccia al tredici e quella al tredicista, che si scatenò particolarmente quando nella ricevitoria numero 13 di Crema un tredici e qualche 12 fruttarono, il 7 novembre ’93 oltre 5 miliardi e mezzo; li vinsero pure a Patti Marina, Messina, e all’autogrill della Salerno-Reggio Calabria, già da allora in costruzione nello stesso concorso. Un mese dopo il montepremi toccò oltre 35 miliardi. Il Totocalcio meritò così la Stella al Merito Sportivo: del resto se una colonna all’inizio costava 30 lire, nel 1948 fu portata a 50 per finanziare la spedizione olimpica di Londra 1948, quella durante la quale Adolfo Consolini lanciò il suo disco volante. Totò, il principe della risata e della poesia, gliene dedicò una poesia che, raccontata l’idea del sogno che il 13 si portava appresso, più importante che non la vincita stessa, si concludeva: Si avesse già pigliate e miliune/ a st’ora e mo’ starrie/ già disperato./ Invece io sto co a capa dinto a luna/ tengo sempe a speranza d’ e ppiglià. Quella speranza era il Totocalcio, ucciso dal progresso e sepolto da un comma di legge.