la Repubblica, 17 dicembre 2018
La Cina 40 anni dopo il discorso di Deng
È cominciato tutto qui: la nuova Cina, il nostro mondo. Nella piatta campagna a perdita d’occhio di Xiaogang, umida di canali, una notte di dicembre di 40 anni fa.
Dopo l’ennesima giornata piegato su questi campi di riso, l’anziano signore che oggi sorride in mezzo al suo ristorante aveva appuntamento con altri 17 contadini in una delle capanne del villaggio, pareti di fango essiccato e tetto di paglia. Ne discutevano da mesi: dividersi la terra significava tradire il sistema collettivo, essere bollati come proprietari, arrestati, forse uccisi. Eppure con un’impronta di inchiostro rosso su un foglio di carta hanno deciso di rischiare, ogni famiglia avrebbe coltivato il proprio campo: «Volevamo solo non morire di fame», dice con accento dell’Anhui Yan Jinchang, 74 anni e un cappotto nero con collo di pelliccia. Per loro fortuna lassù al Nord, a Pechino, anche la leadership comunista la pensava così. Qualche giorno dopo, il 18 dicembre, il segretario Deng Xiaoping lanciava le modernizzazioni del Dragone, l’era di riforme e aperture. I contadini di Xiaogang da nemici del popolo diventavano pionieri da celebrare, Xi Jinping in persona è venuto qui a farlo, le foto sono in bella mostra: «Oggi i miei sette figli hanno tutti l’automobile», dice orgoglioso Yan.
Si possono misurare così i 40 anni di miracolo cinese, in cose che la gente non aveva e ora ha: le auto, la Coca-Cola, i parchi divertimento, i grattacieli.
Perché la Cina era uscita in ginocchio dalle rivoluzioni di Mao, livelli di miseria nordcoreani, mentre le energie che un inedito capitalismo di Stato ha liberato l’hanno resa superpotenza. Hanno trascinato 800 milioni di persone fuori dalla povertà, creato una classe media di 400 milioni di consumatori corteggiati dai marchi di tutto il mondo, ma anche allargato a dismisura le diseguaglianze.
Xiaogang incarna pure queste, rimasto nonostante tutto un sonnolento paesino di cinquemila anime attorno a una strada, con un museo spropositato e un parco industriale semideserto. La metropoli di Hangzhou dista due ore di treno, ma è lontana un universo. Là un maestro di inglese autodidatta di nome Jack Ma ha creato un impero del commercio digitale, Alibaba. Là i neolaureati fanno colazione da Starbucks e immaginano startup, come i loro pari americani. Se a Xiaogang i redditi sono cresciuti di tre volte, come vanta il segretario locale del Partito, in città di dieci, cento. L’unica cosa che accomuna tutti è la fedeltà a quell’adagio originario di Deng: arricchirsi è glorioso.
«Quando i parenti mi incrociavano per strada facevano finta di non conoscermi», racconta la signora Zhang Huamei, 59 anni, capostipite di ogni startupper cinese. I suoi genitori «non riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena», così nel 1979, sfidando l’idea per cui “fare profitto” significava “approfittarsi”, montò un banchetto di bottoni fuori dalla porta di casa, pronta a nasconderlo al passaggio della polizia. Un anno dopo è diventata il primo imprenditore privato del Paese, licenza 10101, un’azienda con cui ancora si arrabatta: «Senza le riforme non saremmo qui».
Non che il percorso sia stato lineare. Ci sono stati bassi come Tiananmen, a spegnere l’illusione che le riforme potessero essere anche politiche. O alti come l’ingresso nel Wto che ha reso il Dragone fabbrica del mondo, inondandoci di prodotti low cost e portando via tanti posti di lavoro. Un momento basso la Cina lo sta vivendo anche ora, a cavallo dello storico anniversario. All’esterno Donald Trump l’ha trasformata in un avversario da contenere; all’interno l’economia frena mettendo in discussione il patto sociale tra regime e cittadini-consumatori. Nel concreto: a novembre le vendite di auto sono scese del 14%, non succedeva da 35 anni. Mai negli ultimi anni il Partito, la cui legittimità è nei risultati, era stato così sotto pressione.
Sanare le crescenti contraddizioni di uno sviluppo selvaggio, come l’inquinamento fuori controllo o le bolle di debito, significherebbe limare altri decimi di crescita. Viene in mente un pensiero dello scrittore Yu Hua, ossessionato dalle martellate in casa del vicino: «Che strano: hanno ultimato la ristrutturazione di un Paese, ma non quella di un appartamento».
«Oggi la Cina è ancora a metà del guado, molto distante dall’altra sponda», dice delle riforme Hao Yisheng, professore all’Università di Scienza politica e Legge di Pechino. Uno che ha contribuito in prima persona: nel 1984, a 31 anni, era tra i giovani economisti riuniti tra le colline di Moganshan per discutere su come riformare i prezzi, fino ad allora fissati dallo Stato. Racconta di un dibattito «infuocato», in cui «nessuno rispettava i tempi degli interventi», nonostante lo scampanellio del moderatore: «Avevamo una enorme passione – ricorda – sentivamo che la Cina stava abbracciando un cambiamento senza precedenti, tutte le opinioni potevano essere espresse e la distanza con la leadership era minima, cosa impensabile oggi».
Nel fronte degli economisti liberali di cui fa parte molti denunciano che il rinnovamento si è fermato, che il Partito con Xi Jinping al suo centro è tornato onnipotente, banche e industrie di Stato le sue braccia armate. La frenata di investimenti e consumi sarebbe un sintomo di sfiducia, inespressa o censurata.
Eppure negli ultimi giorni, almeno verso gli Stati Uniti, il regime ha dato segnali di apertura. Domani a Pechino Xi terrà un discorso sui 40 anni della nuova Cina, poi definirà le politiche economiche per il prossimo anno. Arriveranno altre promesse di riforma, e secondo alcuni non è detto che stavolta vengano disattese.
Servono anche alla Cina, a patto che non sembri una resa a Trump. In fondo è la grande occasione per il presidente eterno di scacciare lo spettro di Deng, già rimosso dalle celebrazioni, e di rilanciare un nuovo ringiovanimento, il suo: quello che entro metà secolo dovrebbe portare il Paese, campagne comprese, a livelli di benessere “americani”. Ancora una volta il capitalismo di regime smentirà le profezie occidentali sulla sua crisi?
Nell’enorme mostra sui 40 anni allestita al Museo nazionale, a Tiananmen, il passato agricolo da cui la Cina viene non esiste più. In compenso presente e futuro sono ovunque: il programma spaziale, le portaerei, i treni alta velocità.
«Sono orgoglioso», dice uno studente venuto da Xiamen, mentre giovani e anziani si scattano foto davanti alle mute da astronauti. Secondo un sondaggio di Xinhua, il 93% degli universitari cinesi, nella prossima vita, vorrebbe rinascere cinese. Non è difficile capire perché: da 40 anni il loro Paese si sveglia ogni giorno “più": più ricco, più sano, più longevo. Ci sarà tempo per i dubbi, oggi la Cina ha un miracolo da celebrare.