17 dicembre 2018
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Biografia di Cesare Battisti
Cesare Battisti, nato a Cisterna di Latina (Latina) il 18 dicembre 1954 (64 anni). Terrorista. Ex membro dei Proletari armati per il comunismo (Pac). Assassino. Condannato in via definitiva a due ergastoli per quattro omicidi. Scrittore. «Terrorista è chi compie azioni indiscriminate, senza un consenso sociale. Il terrorismo è solo di Stato, dei servizi e dei fascisti» • «È il più piccolo di sei fratelli, tra i quali ci sono due femmine, Assunta e Rita. Abitano tutti a Sermoneta, in via Folletta, una strada di campagna dove papà Antonio, originario del frusinate, alleva le sue pecore. Sono comunisti, è vero, ma non così infervorati come vuol far credere Cesare. In una lettera inviata al Tribunale supremo brasiliano per evitare l’estradizione, scrive di essere cresciuto “in una famiglia molto militante: mio padre e i miei fratelli mi hanno portato molto giovane all’azione politica”. È una bugia, ma serve a creare l’immagine di un bambino trascinato in qualcosa di più grande di lui, condizionato dagli altri, addirittura dai suoi cari. […] In realtà, come risulta dalle testimonianze degli stessi fratelli, a casa Battisti pensano soprattutto a sgobbare, da quando il padre, verso la fine degli anni Sessanta, è costretto a vendere tutto il gregge. L’attività non c’è più, il futuro è incerto e i fratelli cominciano a darsi da fare. Di questa iniziazione politica di cui parla Cesare non c’è traccia. Il più piccolo […] a lavorare non ci pensa proprio. Preferisce invece la vita un po’ scanzonata del piccolo balordo di provincia, tanto a mantenerlo ci pensano i più grandi» (Giuseppe Cruciani). «“Cesare era intelligente e generoso, ma pure ribelle e manesco”, ricorda il fratello Vincenzo. […] Preferisce leggere piuttosto che sgobbare e, terminata la terza media, si iscrive a un istituto privato di Latina, senza successo. Nel tempo libero corre con il go-kart dell’amico Pino, “sgasa” con il 48 della Benelli, pesca con la rete nei canali. Va a ballare al Pescheto o al ritrovo di Borgo Carso: liscio e shake. “Pensavamo solo a divertirci e lui non parlava mai di politica”, ricorda oggi Pino. […] Il primo vero reato lo commettono insieme. È il 13 marzo 1972. I verbali di polizia raccontano che a Ciampino alle 7.20 del mattino quattro persone vengono fermate dai carabinieri mentre scaricano 31 macchine per scrivere e da calcolo Olivetti da una 1500 e da una 500, entrambe Fiat. Le auto sono rubate, come la merce, che vale circa 6 milioni, una piccola fortuna per l’epoca. Cesare, 17 anni, Pino, 19, e Pier Carlo, 30, la stanno rivendendo per 600 mila lire a un meccanico ventisettenne, il ricettatore. […] La vita di Battisti è sempre più adrenalinica, le ragazze non gli mancano. Scalda i muscoli nella palestra dell’estremismo politico e ogni tanto va a fare a pugni con i giovani neofascisti di Latina nei bar vicino allo stadio. Ama le auto e viene arrestato per guida senza patente. Acquista una Mini Minor rossa K2 con cui sfreccia nelle strade dell’Agro Pontino. A Latina frequenta una prostituta di vent’anni, Clara. Il 1° maggio 1974, insieme con un amico, convince due ragazzine di origine calabrese (una di 16 e l’altra di 13 anni) a seguirli in treno. Arrivano sino in Sicilia. In albergo fanno l’amore. La “fuitina” dura quasi due settimane. Battisti viene denunciato per “sottrazione di minore a fini di libidine violenta su persona incapace”. Poche settimane dopo lui, invece di scusarsi, aggredisce lo zio della tredicenne. Sabato 3 agosto 1974, insieme con Claudio e Luciano, due coetanei, decide di esagerare. Viaggiano su una Giulia 1600, “trombe potenti e carburatori rumorosissimi”, informa un giornale dell’epoca. Sgommano sul lungomare di Sabaudia, si fanno notare dai vigili. Poi si calano tre calzemaglie sul volto: con una pistola calibro 7,65 e una lupara entrano nella villa di Giuseppe Cerquetti, dentista romano. […] Alla fine il bottino è magro e dopo un paio d’ore i tre sono già in manette. Battisti finisce prima nel carcere di Spoleto, poi in quello romano di Rebibbia» (Giacomo Amadori). «Il 20 febbraio ’76 esce dal carcere per scadenza dei termini di custodia cautelare e in maggio parte per il servizio militare: prima a Casale Monferrato, poi a Torino, dove cerca di farsi passare per “demente”, ma invece ottiene solo di essere spedito in Friuli, nella compagnia artiglieri. E l’incontro che cambia la sua vita avviene proprio a Udine, nella prigione del capoluogo. Siamo all’inizio del ’77 e Battisti torna dentro per scontare i reati commessi da borghese. Con Cavallina [Arrigo Cavallina (1945), cofondatore dei Proletari armati per il comunismo, poi dissociatosi dalla lotta armata – ndr] entra subito in sintonia: resta affascinato dalle sue teorie politiche, tanto che, quando a maggio esce dal carcere, tra i due inizia una fitta corrispondenza. Cesare è ancora sotto le armi, ma assegnato al distretto militare di Latina, da dove si congeda con una condanna per insubordinazione. […] All’inizio del febbraio ’78, con altri due ragazzi appena ventenni, tenta di rapinare l’ufficio postale di Monticchio, una frazione di Sermoneta. Un fallimento. Il bottino è magro, gli amici vengono arrestati; lui, con la pistola e un po’ di soldi, riesce a scappare. E si rifugia tra le braccia di Cavallina, a Verona. Nella lettera al tribunale brasiliano Battisti la racconta, naturalmente, in modo diverso: Cavallina diventa l’“uomo più anziano” di cui non gli piaceva la “personalità fredda e al tempo stesso febbrile” e da cui sarebbe stato trascinato dentro la lotta armata. Un po’ come la storiella del padre che gli fece scoprire la politica da ragazzo. I furti, invece, si trasformano in azioni di militanza giovanile. È lo stesso Cavallina, però, che nel suo libro spiega chiaramente come Battisti viene introdotto nel gruppo terroristico: “Siamo rimasti in corrispondenza; uscito anche lui dal carcere, agli inizi del ’78 m’è capitato a casa, a Verona, chiedendo rifugio perché aveva combinato qualcosa ed era nuovamente ricercato. Gli ho trovato ospitalità qua e là presso amici, con qualche scusa, senza dire che era un latitante. […] Intanto, con la sua simpatia e l’aria di bulletto autoironico, lo sguardo che lasciava intuire un altro mondo non detto, si era ben inserito nel giro di conoscenze e anche di qualche avventura amorosa. Altrettanto bene si è inserito nei Pac e ne ha condiviso la storia”. Battisti è presente in quasi tutte le azioni dei Pac, almeno in quelle più importanti: rapine, gambizzazioni e omicidi. Perché? C’è nel personaggio una frenesia fuori dal comune. Secondo Franco Mancini, il sostituto procuratore generale che sostiene la pubblica accusa nel processo di secondo grado del 1986 all’organizzazione terroristica, quando l’ex delinquente di Sermoneta è in fuga ormai da cinque anni, “all’origine c’è un desiderio di riciclarsi”. “Battisti”, spiega nell’arringa finale prima della sentenza, “proviene dalla delinquenza comune. […] Entra in contatto con i Pac quando è ricercato per uno di questi reati. Probabilmente questo soggetto, che si vede offerta un’opportunità di riciclaggio e di rigenerazione rispetto alla sua origine – e cioè continuare a fare quello che ha sempre fatto, e cioè rapine, e oltre a questo altre cose con una vernice di ideologia di carattere politico –, per questo manifesta nelle sue azioni una presenza, un attivismo, che è veramente suo proprio, forse esclusivo, e lo segnala rispetto a tutti gli altri esponenti dei Pac, pure responsabili di delitti gravi”» (Cruciani). «Secondo le condanne definitive dei tribunali italiani, Battisti partecipa e spara in due omicidi. Il primo è quello del maresciallo degli agenti di custodia del carcere di Udine Antonio Santoro, 6 giugno 1978, che i Pac accusano di maltrattamenti ai detenuti. Il secondo è quello dell’agente della Digos Andrea Campagna, ucciso per ritorsione dopo l’arresto di alcuni militanti a Milano, il 19 aprile 1979. Negli altri due omicidi, organizzati per essere compiuti lo stesso giorno, uno a Mestre, l’altro a Milano, Battisti ha ruolo comprovato, ma non diretto. I Pac vogliono punire due commercianti che nelle settimane precedenti avevano reagito con le armi a due tentativi di rapina. E vogliono fare propaganda armata per arruolare i soldati della malavita nel “contropotere rivoluzionario”. Quel 16 febbraio 1979, Battisti è nel commando che uccide il macellaio veneto Lino Sabbadin, ma con il ruolo di copertura, secondo le testimonianze dei suoi compagni rei confessi. Mentre la sua partecipazione all’altro omicidio che si compie contemporaneamente a Milano è solo nella pianificazione che l’ha preceduto. La vittima è un gioielliere, si chiama Pierluigi Torregiani. Tre settimane prima ha reagito all’irruzione di due rapinatori nel ristorante Il Transatlantico, dove stava mangiando. Era armato, ha sparato, è nato un conflitto a fuoco. Sono morti un bandito e un cliente. Lui è rimasto ferito. I giornali parlano di gioielliere-sceriffo. I Pac lo condannano a morte. Venti giorni dopo lo aspettano davanti alla sua piccola gioielleria alla Bovisa, gli sparano mentre sta aprendo il negozio in compagnia dei suoi due figli adottivi e lo uccidono. Ma l’agguato ha un sovrappiù di tragedia. Torregiani prova a difendersi: cadendo spara un unico colpo di pistola, che colpisce alla spina dorsale il figlio Alberto, 15 anni, condannato da allora alla sedia a rotelle» (Pino Corrias). Arrestato nel 1979 nell’ambito di un’indagine antiterrorismo in quanto trovato in possesso di un arsenale di armi da fuoco e quindi condannato a 12 anni di reclusione, due anni dopo grazie all’aiuto di alcuni suoi sodali Battisti riuscì a evadere dal carcere di Frosinone. «Era il 4 ottobre del 1981. Attraversò – racconta lui – “l´Italia e le Alpi a piedi”. Un viaggio di trenta giorni per raggiungere la Francia» (Omero Ciai). «Battisti è fuggito dall’Italia prima che i processi prendessero inizio, quando era in carcere per scontare una condanna per possesso illecito di armi. È andato prima in Francia, poi in Messico, poi di nuovo in Francia, protetto dalla cosiddetta dottrina Mitterrand: una politica con cui la Francia dava ospitalità e sicurezza a ex terroristi stranieri purché questi lasciassero la lotta armata e la violenza. […] Battisti quindi non ha partecipato alla sua intera fase processuale, perché latitante: diceva di non riconoscersi nel sistema giudiziario italiano e si professava innocente. È stato quindi processato in contumacia, dando mandato per la sua difesa ad alcuni avvocati. […] Finché la dottrina Mitterrand rimane in piedi, le richieste di estradizione presentate dall’Italia cadono sistematicamente nel vuoto: secondo la Francia, le legislazioni di emergenza approvate dall’Italia durante gli anni del terrorismo erano inique e non conformi agli standard degli altri Paesi europei. Nel 2004, però, durante la presidenza Chirac, la Francia concede l’estradizione. Battisti presenta ricorsi al Consiglio di Stato francese, alla Corte di cassazione italiana e alla Corte europea dei diritti dell’uomo: tutti vengono respinti. Scappa. […] Viene arrestato nel 2007 a Copacabana, in Brasile, dove però nel 2009 gli viene accordato lo status di rifugiato politico: il ministro della Giustizia brasiliano, Tarso Genro, ritiene che in Italia l’incolumità di Cesare Battisti sarebbe in pericolo per via delle sue idee politiche. Questo nonostante il parere favorevole all’estradizione del Conare, il Comitato nazionale per i rifugiati, che si era opposto al riconoscimento dello status di rifugiato politico. […] Il 18 novembre 2009 il Supremo Tribunal Federal, la più alta istituzione giurisdizionale del Brasile, ha considerato illegittimo lo status di rifugiato politico concesso a Cesare Battisti dal governo brasiliano. La sentenza, per quanto favorevole ad assecondare la richiesta di estradizione presentata dall’Italia, lascia però alla presidenza della Repubblica la decisione finale. […] Il 30 dicembre 2010 l’avvocatura generale del governo ha dato parere contrario, e il presidente brasiliano Lula, nell’ultimo atto ufficiale della sua presidenza, ha negato l’estradizione» (Francesco Costa). La latitanza di Battisti poté così continuare indisturbata per alcuni anni. Una volta conclusa però tra gli scandali l’èra delle presidenze di Lula (2003-2011) e della sua erede politica Dilma Rousseff (2011-2016), con il primo condannato a dodici anni di reclusione e interdetto ai pubblici uffici per corruzione e la seconda destituita mediante procedimento di messa in stato d’accusa per aver falsificato i bilanci dello Stato, l’avvento al potere di Michel Temer (31 agosto 2016), già vicepresidente della Rousseff ma alieno a collusioni ideologiche col terrorismo rosso, impresse un netto cambiamento di rotta al caso Battisti. Quando, infatti, nell’ottobre 2017, il latitante fu arrestato dalle autorità brasiliane con l’accusa di trasporto illegale di denaro mentre cercava di fuggire in Bolivia, Temer annunciò l’intenzione di revocargli lo status di rifugiato politico per poi autorizzarne l’estradizione; tale decisione fu però sospesa dall’autorità giudiziaria, in attesa che il Supremo Tribunal Federal decidesse se un presidente potesse modificare quanto deliberato in merito da un suo predecessore. Il 14 dicembre 2018, finalmente, la svolta. «Cesare Battisti dev’essere arrestato immediatamente e in seguito estradato in Italia. Con una decisione a sorpresa Luiz Fux, uno dei ministri della Suprema corte brasiliana, ha saltato il prossimo incerto passaggio della vicenda giudiziaria dell’ex terrorista e deciso di accogliere le richieste dell’Italia. […] Fux ora ha deciso di tagliar corto. Sostiene che un capo di Stato può optare diversamente da un suo predecessore e ribaltare una sua posizione, perché l’esecutivo prevale sul potere giudiziario in materia di estradizione. Ha scartato le ragioni della difesa, come la circostanza che il fuggitivo ha un figlio piccolo in Brasile da dover mantenere. Ordinandone l’arresto, Fux consegna Battisti di fatto alla più alta carica del Paese, che per legge è la persona che firma l’estradizione» (Rocco Cotroneo). Battisti, pur privo di passaporto e interdetto all’espatrio, si rese irreperibile alla fine di ottobre 2018 in concomitanza con la vittoria elettorale di Jair Bolsonaro, notoriamente favorevole alla sua estradizione. Grazie ad accurate ricerche internazionali fu però individuato a Santa Cruz, in Bolivia, dove il 12 gennaio 2019 fu arrestato: vistosi respingere la richiesta d’asilo politico, il 14 gennaio fu finalmente trasferito in Italia, e quindi rinchiuso nel carcere di Oristano • Autore, dai primi anni Novanta, di una serie di libri definiti «polar», cioè di un genere tra il poliziesco e il noir. «In […] romanzi gialli scritti per campare Battisti ha raccontato personaggi che gli assomigliano: uomini senza qualità, spaventati dal proprio passato, schiacciati dalla colpa e da una responsabilità che non sentono il dovere di ammettere. Uomini come lui, passati dalla grande storia della Rivoluzione alle portinerie della vita quotidiana [in Francia Battisti fu portinaio di uno stabile – ndr], con personale consuntivo annotato in appendice a L’orma rossa (Einaudi, 1999): “Ogni giorno comincia sporco. Io lo pulisco con la scopa, lo straccio e il computer e mi ci rotolo dentro”: lui è quella cosa lì. Di tanta biografia spesa, solo le sue vittime gli restituiscono una qualche profondità d’ombra e di destino, dentro a una tragedia così grande che non gli corrisponde e che neanche lontanamente si merita» (Corrias) • Straordinaria la mobilitazione di intellettuali e politici, italiani prima e francesi poi, in favore di Battisti, a partire dai giorni del suo arresto a Parigi nel 2004. «Nel 2004 furono in millecinquecento – in soli sei giorni – a firmare l’appello, apparso sulla rivista on line Carmilla, che definiva l’arresto di Battisti in Francia “uno scandalo giuridico e umano”. C’erano fra le altre le firme degli scrittori Valerio Evangelisti, Tiziano Scarpa, Massimo Carlotto, Nanni Balestrini, Laura Grimaldi, Giuseppe Genna, Stefano Tassinari; quella del vignettista Vauro; quelle dei parlamentari Paolo Cento e Mauro Bulgarelli dei Verdi e di Giovanni Russo Spena e Graziella Mascia di Rifondazione comunista; c’erano le firme di professori universitari, di giornalisti, e così via. Un elenco che rapidamente si allungò fino a toccare quota duemilacinquecento firme. Nell’appello Battisti veniva definito “un uomo arguto, profondo, anticonformista nel rimettere in gioco se stesso e la storia che ha vissuto”. Si precisava poi che “la sua vita in Francia è stata modesta, piena di difficoltà e sacrifici, retta da una eccezionale forza intellettuale”. Tutte considerazioni che sembrano prescindere dal punto di partenza: quest’uomo ha o non ha ucciso quattro persone? Eppure, il termine “un delitto” nell’appello veniva usato solo per definire l’arresto avvenuto in Francia. […] Il caso-Battisti è […] partito tutto da lì. Se prima in Francia e poi in Brasile hanno potuto parlare di “magistratura fascista” e “berlusconizzata” (forse ignorando i rapporti tra magistratura e Berlusconi), è perché qualcuno qui da noi glielo ha fatto credere» (Michele Brambilla). Particolarmente notevole, tra le firme in calce all’appello del 2004, quella di «Roberto Saviano, giornalista», all’epoca ancora ignoto ai più (Gomorra sarebbe uscito solo nel 2006); nel 2009, quando la vicenda emerse («Mi segnalano la mia firma in un appello per Cesare Battisti. […] Finita lì per chissà quali strade del web e alla fine di chissà quali discussioni di quel periodo»), Saviano, ormai famoso, chiese che il suo nome fosse cancellato dall’elenco «per rispetto a tutte le vittime». Tra i francesi si mobilitarono invece con particolare trasporto l’allora sindaco di Parigi Bertrand Delanoë, l’allora segretario dei socialisti (e futuro presidente della Repubblica) François Hollande, lo scrittore Daniel Pennac, il filosofo Bernard-Henri Lévy e, soprattutto, la scrittrice Fred Vargas, principale benefattrice e finanziatrice del latitante. Sempre smentita dall’interessata, e sempre confermata da autorevoli fonti brasiliane, l’intercessione in favore di Battisti operata presso Lula da Carla Bruni, anche grazie all’ascendente del marito, l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy • Due matrimoni alle spalle; due figlie dalla prima moglie, francese, e un figlio dalla seconda, brasiliana • «Battisti, fino a prima del suo arresto, non ha mai negato ciò di cui era accusato, in particolare i quattro omicidi compiuti dai Proletari armati per il comunismo (Pac). E nemmeno dopo l’arresto francese (primavera 2004). È soltanto dopo la prima pronuncia della giustizia parigina (“sì” all’estradizione) che […] la sua faccia è cambiata. Da quel momento in poi Battisti non è più stato il combattente della libertà che ha “dovuto impugnare le armi sotto la repressione poliziesca” […], ma il militante incastrato dalla vendetta dei suoi ex compagni pentiti. Solo allora Battisti ha abbandonato una difesa militante (tagliando così i ponti con il mondo dei rifugiati italiani in Francia guidato da Scalzone e Persichetti) per assumere una tardiva difesa sui fatti: “Non ho ucciso nessuno”. Fuggito in Brasile grazie a un passaporto procuratogli dai servizi francesi (un dettaglio che ha rivelato lui stesso) mentre il Consiglio di Stato confermava a Parigi il “sì” all’estradizione, per tre anni ha vissuto in clandestinità, e quando è ricomparso agli arresti (2007) Battisti ha definitivamente trasfigurato il suo volto in quello di un perseguitato: “L’estrema destra italiana mi vuole in carcere per farmi la pelle… Se entro in una prigione italiana non ne esco vivo…”. Fino alla sublimazione del grottesco berlusconiano: “I giudici comunisti ce l’hanno con me, mi vogliono in galera per vendetta”» (Cesare Martinetti) • «Nell’inchiesta uno solo è il pentito, Pietro Mutti, ma quasi tutti i componenti della banda si sono dissociati rilasciando ampie e convergenti confessioni che hanno permesso di ricostruire i quattro omicidi dei Pac (Proletari armati per il comunismo) e il ruolo di ciascuno a cominciare da Battisti, non capo ma solerte militante e per due volte killer. Le corti hanno condannato, la Cassazione ha confermato. E dunque perché una vicenda processuale così chiara e una serie di dibattimenti pacati, dialoganti e collaborativi sono diventati un caso? La risposta è che non si discuteva di fatti storici, ma di miti, leggende, pregiudizi. […] L’ultimo paradosso è relativo alla cosiddetta “dottrina Mitterrand”, da sempre usata dai rifugiati come scudo contro ogni richiesta di estradizione. Ebbene, come spiega Jean Musitelli, che fu consigliere del presidente socialista all’Eliseo, […] nel respingere il ricorso di Battisti contro la sentenza della Corte d’appello di Parigi favorevole all’estradizione il Consiglio di Stato ha motivato il “no” proprio con la dottrina Mitterrand, non applicabile “agli individui riconosciuti colpevoli dei delitti di sangue”. In altre parole: Battisti e i suoi difensori (principi del foro di Parigi pagati da Fred Vargas, non gli avvocati militanti che l’avevano difeso in Italia) erano così immersi nella loro favola da credere alla versione mitizzata della dottrina Mitterrand. Purtroppo ci ha creduto per anni anche l’Italia, che ha sempre considerato quella dottrina una barriera alle estradizioni, ed era invece la leva con la quale farsi valere» (Martinetti). «Battisti dice di essere stato condannato in contumacia. È facile rispondere che non è venuto in Italia a difendersi per sua scelta. Anzi, l’unica volta che s’è trovato in aula ha teorizzato la non-difesa. Al giudice Corrado Carnevali gridava: “Stai sicuro, veniamo a prendere anche te”. Oppure: “Siete solo dei buffoni di merda”» (Giorgio Dell’Arti) • «Un adrenalinico zingaro dello spirito e delle geografie» (Giuseppe Genna). «Se non ci fosse la lunga striscia di sangue che si è lasciato dietro, la sua sarebbe la tragedia di un uomo ridicolo: il velleitarismo da artista, il millantato credito ideologico-rivoluzionario, uno status di “fuggitivo” zeppo di avvocati a disposizione, di intellettuali pronti a credergli (non c’è intellettuale più cretino dell’intellettuale francese quando fa di un assassino, purché abbia scritto un romanzo, un santo), la connivenza di leader politici vanesi e/o pasticcioni. È anche per questo che, pur giungendo in ritardo, quando e se la giustizia italiana riuscirà a prenderlo in consegna, troverà esattamente la stessa persona che quasi trent’anni prima l’aveva beffata. Un imbroglione omicida, a cui il tempo trascorso non ha insegnato niente se non la perpetuazione e il raffinamento della menzogna, un delinquente a sangue freddo che non ha mai avuto il coraggio privato e pubblico di guardarsi in faccia e di guardare in faccia i parenti delle sue vittime. […] È vergognoso che per tutto il trentennio di Battisti “en cavale”, in fuga, ci sia chi si è bevuto la sua storia di martire di una causa nobile nonostante la sconfitta. Non c’è stato mai nulla di nobile in Battisti, così come non c’è mai stata nessuna causa dietro di lui che valesse un quarto di nobiltà. C’è stato, semplicemente, un assassino che l’ha fatta a lungo franca, che non si è mai pentito, che si è sempre creduto più furbo di tutti. Un uomo senza dignità e che non ha mai mostrato di sapere cosa fosse la pietà» (Stenio Solinas) • «La sola cosa che mi dà un po’ fastidio è il dolore causato alla mia famiglia».