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 2018  dicembre 17 Lunedì calendario

Gli italiani sono senza debiti

Qualcosa sospettavamo, ma gli ultimi dati del Fondo Monetario (Fmi) stagliano l’Italia come un Paese di cicale rispetto ad altre formiche che parlano e predicano e ammoniscono, ma poi risultano indebitate sino al buco del deretano. Parlando infatti di disavanzo privato - quello delle famiglie, in pratica - si scopre che gli italiani hanno un debito pari ad appena il 41,31 per cento del loro Prodotto interno lordo (Pil) quando i maestrini tedeschi, tanto per arrivare subito a loro, ne hanno uno pari al 52,7 per cento del loro Pil. Si parla, ripetiamo, di debito privato, quello che attiene la somma dei comportamenti dei singoli e delle famiglie: questo in un Pianeta dove i debiti nel loro complesso (pubblici e privati messi insieme) ammontano alla cifra astronomica di 184mila miliardi di dollari che sono pari al 225 per cento del Prodotto interno lordo globale. È come se ogni abitante della Terra avesse 86mila dollari di debito sul groppone: un record storico e assoluto, in netto rialzo di duemila miliardi rispetto a quello – già un record mai visto – messo nero su bianco dal rapporto Fiscal Monitor dell’ottobre scorso. Rispetto ad allora mancavano dati aggiornati, ed ecco il risultato. Stando a quanto comunicato dall’Fmi, le tre nazioni più indebitate sono Stati Uniti, Cina e Giappone: a loro corrisponde oltre la metà del debito globale. Tuttavia, come dimostra anche il caso italiano, la diffusione dei debiti non è per niente uniforme da Stato a Stato, sicché solo alcune aree geografiche potrebbero presentare problemi in futuro. Le tabelle dello stesso Fmi (rese note il 13 dicembre) per esempio evidenziano che le famiglie più indebitate e perciò vulnerabili sono quelle canadesi, dove il debito dei privati ammonta al 100,02 per cento del Pil nazionale: cittadinanza e classe politica fanno a gara a chi sta messo peggio. E al secondo posto chi c’è? Le famiglie inglesi, con un debito pari all’86,35 per cento del Pil. Nella gara allo scialacquo, gli inglesi hanno superato persino i cugini statunitensi, che sino al 2007 avevano debiti per 98,63 per cento ma poi sono stati costretti a una cura dimagrante drastica (per una crisi in parte innescata da loro) che ora li vede indebitati per il 77,66 per cento rispetto al Pil Usa. Poi vabbè, la classifica prosegue, ma valutarla diventa più complicato perché si parla di realtà molto diverse per numero di abitanti e assetto geopolitico. Resta che, secondo il Fondo Monetario, le tre nazioni più indebitate sono Stati Uniti, Cina e Giappone, alle quali corrisponde più della metà del debito complessivo.

L’ANOMALIA GIAPPONESE Poi - ahia - si passa al settore pubblico, dove la storia è tutta un’altra: a cominciare proprio dall’Italia. Da una parte le citate formiche, dall’altra una classe politica che negli anni ci ha progressivamente portato al 132 per cento del Pil. Ma i dati su questo, a livello mondiale, erano già noti sin dal World Economic Forum del giugno scorso. Tutto per scoprire che molto indebitati, ma sempre meno di noi, sono per esempio il Belgio (ha un debito pubblico pari al 105,5 per cento del Pil) che infatti è tra i Paesi europei che violano le regole dell’Eurozona sul deficit. Ma lasciando da parte chi ha fatto meglio della nostra classe politica (sono troppi: compresi il Portogallo, Cipro, il Bhutan, Singapore, la Giamaica, il Mozambico e il Gambia) ad avere un debito superiore al nostro mitico 132,6 ci sono solo quattro Paesi molto differenti tra loro: le isole di Capo Verde (133,8), il Libano (143,4), la Grecia (181,3) e al primo posto - non chiedeteci come e perché - il tecnologico e avanzato Giappone, che ha un debito pubblico pari al 239,2 per cento del Pil. Nessuna Commissione Europea però rompe le scatole a questi Paesi, per nessuno spunta regolarmente un commissario a evidenziare «motivi di preoccupazione per l’Eurozona». Non hanno le nostre fortune. Restando all’Italia, in altra sede si potrà magari analizzare storicamente e tecnicamente ciò che ora pare sintetizzabile così: la tendenza degli italiani è non avere debiti, la tendenza dei loro politici è averne a strafottere. Coi soldi altrui. Se lasciamo da parte le fasi storiche imprescindibili di crescita del debito (Grande Depressione, Guerre mondiali) vediamo che i veri guai cominciano dal 1974 in avanti: si riparte da un 54 per cento di debito pubblico e nel 1994 eccoci al 124: è quello il debito che l’Italia non è mai riuscita a riassorbire, nonostante abbia chiuso in attivo - unica in Europa - 22 bilanci pubblici su 23 tra il 1995 e il 2017. I momenti chiave sono diversi. Nel 1981 le scelte di Ronald Reagan e della Federal Reserve fanno saltare anche l’equilibrio precario dei conti italiani: un drastico aumento del costo del denaro costringe il nostro Paese a inseguire scompostamente pur di restare dentro il Sistema monetario europeo. Fiscalmente l’Italia restava indisciplinata, e così per tutti gli anni Ottanta i bilanci furono negativi (diversamente da altri stati europei) e piano piano il debito pubblico andò fuori controllo, questo mentre - paradossalmente - ’economia italiana volava (divenne la quarta del mondo) e modernizzava il Paese ponendo le basi sulle quali nel bene e nel male si muove ancora oggi. Da allora, però, gli interessi sul debito vanificavano ogni sforzo (quando c’era) e la classe politica intanto non investiva sulla crescita se non a sprazzi. Da qui una media di crescita inferiore a quella della zona euro: anche il +1,5 per cento di crescita del Pil italiano del 2017 (miglior risultato dal 2010) impallidiva davanti al +2,5 medio europeo.

LE COLPE DEGLI ELETTORI Le colpe della classe politica sono state indubbie, ma è anche vero che si sono specchiate in un elettorato indisposto a perdonare ogni politica impopolare. Anche grazie all’evasione, il tenore di vita degli italiani – se sommiamo i patrimoni e le case e i titoli e le rendite, tipo le pensioni – restava tra i più alti del mondo, anche se alle banche centrali e ai mercati internazionali interessava solo la produzione annua e il pareggio di bilancio. Nessun elettorato si è mai mostrato disponibile a recedere dai welfare e dagli assistenzialismi che in Italia hanno sparso incredibili quantità di denaro su infinite categorie e corporazioni: dagli operai illicenziabili ai coltivatori diretti, dagli statali inamovibili a un sindacato che in Italia è stato potente come in nessun altro Paese occidentale: la spesa pubblica è salita spaventosamente anche per questo. È in quella fase che i sindacati e le classi dirigenti (comuniste e democristiane, soprattutto) cominciarono a vendersi il futuro dei loro figli. Lo Stato, allora come oggi, per mantenere le clientele politiche e sociali si è trasformato in un gigantesco erogatore che ha gonfiato il debito pubblico, ha regalato pensioni e, peggio ancora, ha fatto l’occhiolino a una società che intanto faceva crescere il cosiddetto sommerso, non rilasciava fatture e trasformava in statali ipergarantiti anche gente immeritevole. Così l’evasione fiscale volava alle stelle. A latere di una classe politica poco coraggiosa (soprattutto negli ultimi lustri) ci sono generazioni che hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità con il carburante della spesa pubblica: ma ora, dettaglio, i soldi sono finiti e le regole dell’Euro e dei famosi mercati non consentono (più) di nascondere i debiti sotto il tappeto. La varie classi politiche, insomma, hanno scialacquato eccome: ma i soldi non sono finiti proprio tutti nelle loro tasche. Mentre dall’altra, come visto, il popolo italiano si dimostrava risparmiatore pur senza riserve infinite: questo Paese, al di là dei dati, ha smesso da un pezzo di mettere i soldi sotto il materasso, e, anche da noi, non guardare al lungo periodo sta diventando una filosofia di vita oltreché una necessità. Hanno fatto un milione di inchieste giornalistiche sul nuovo ceto medio (o sulla sua scomparsa) e l’esito è sempre quello: tutte le fasce sociali si stanno spalmando su un neo-proletariato in parte declassato e in parte più benestante che mai, come dimostra – appunto – l’aumento della povertà delle famiglie ma anche l’aumento medio dei consumi di lusso. Le diseguaglianze sociali, insomma, si sono ridefinite, e il voto politico di conseguenza: resta solo da credere che la nuova classe politica (definirla così pare anche troppo) non si sia impoverita a sua volta in visione e capacità. È un dubbio retorico. Anche perché, per ora, solo una cosa è certa: il partito della spesa ha ripreso le forze