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 2018  dicembre 16 Domenica calendario

Biografia di Gaetano Miccichè A tavola con Gaetano Miccichè

«La nostra casa a Palermo era aperta. Mio padre Gerlando e mia madre Maria Teresa avevano l’abitudine di ospitare sempre tantissimi amici. Spesso si giocava a bridge. Le signore a canasta. Si ascoltava musica classica e lirica. Si parlava di tutto con persone molto interessanti. Venivano anche Elvira ed Enzo Sellerio, Leonardo Sciascia e Renato Guttuso che a tavola voleva sempre una bottiglia di whiskey Johnnie Walker etichetta rossa. Alla fine del pranzo, dopo il caffè, Guttuso prendeva i tovaglioli, vi disegnava sopra delle colombe e poi li regalava alle signore».
Ritratto di interno di borghesia siciliana e, dunque, italiana. Gaetano Miccichè, 68 anni, è un banchiere di lungo corso (ora è presidente di Banca Imi) ed è il presidente della Lega Calcio. Ma, soprattutto, al di là delle posizioni occupate al vertice dell’establishment, Miccichè è uomo di crocevia e di confine. Si trova al crocevia fra le tre città chiave della Storia italiana degli ultimi cinquant’anni: Palermo, Milano e Roma. E opera sul confine fra la dimensione industriale e la dimensione finanziaria, la doppia anima del nostro capitalismo.
Da Boeucc, ci danno il tavolo d’angolo nella sala principale, un punto di osservazione milanesissimo su tutto quello che capita nella città degli affari, del potere civico e dell’influenza culturale. Lui prima di leggere il menù scorre l’elenco dei vini e mi lascia scegliere («Sei piemontese, fallo tu»): prendiamo la barbera d’Asti Nuda di Montalbera prodotta dalla famiglia Morando.
Miccichè è cresciuto nella violenta e sensuale Palermo: «Ero con mio padre a Milano quando, un giorno di fine settembre del 1979, la mafia assassinò il suo amico Cesare Terranova, rientrammo subito a Palermo», «le donne di allora erano affascinanti nella loro bellezza naturale, nessun naso rifatto, nessun seno rifatto, i corpi nascosti nei vestiti». Ci ha lavorato: «Alla Cassa di Risparmio delle Province Siciliane, da neoassunto dopo la laurea in giurisprudenza, ho fatto tutto: cassa, fidi, mutui». È arrivato, a poco più di trent’anni, nella Milano in cui nessuno è straniero: «Quando, nel 1983, venni qui per l’Mba alla Bocconi era una città diversa da oggi, la domenica diventava deserta, pochi bar erano aperti per bere un cappuccino, c’era perfino più nebbia. Ogni volta che un banchiere, un avvocato o un imprenditore era ospite alle lezioni, mi scrivevo il suo numero di telefono sulla prima pagina della mia rubrica. È così che ho iniziato, a Milano, a costruire la mia agenda. Ed è allora che ho capito che, qualunque cosa mi fosse successa, quelle relazioni sarebbero state importanti».
Da Boeucc, dove ai tavoli si consuma il rito ambrosiano della conversazione né sovraeccitata né trattenuta, Miccichè guarda tutti quelli che passano non lontano da noi con interesse e con distacco, pronto a trasformare in un secondo l’interesse in distacco e il distacco in interesse. Ora, da qui, ha esteso la sua attività a Roma, per esempio con la Lega Calcio. La Lega Calcio ha la sede in Via Rosellini a Milano. Tuttavia per la complessità e per il tumulto, per i mille significati reconditi ed espliciti che in Italia ha il pallone, la Lega ha una natura che non può non dirsi romana. E a Roma si trova la Figc, di cui lui è vicepresidente: «Roma come città non l’ho mai amata particolarmente, è disordinata e le cose si fanno con poca puntualità. A Roma ho lavorato soltanto un anno più di vent’anni fa in Iritecna, ma vivevo in albergo. Roma però non è sovrapponibile ai romani. Ho molti amici fra loro, più antichi e più recenti. E molti li frequento anche a Capalbio, nella casa della mia compagna Jacaranda».
Di antipasto, prende una insalata di puntarelle con le acciughe. Io, invece, un piatto di culatello con una foglia di parmigiano sopra. Di primo lui una sogliola ai ferri, io una sogliola alla mugnaia. Ha un vestito grigio ravvivato dal fazzoletto nel taschino («All’inizio, quando andavo nei consigli di amministrazione lo toglievo perché mi sembrava una sciccheria poco apprezzata, poi ho deciso di tenerlo sempre»), una cravatta blu notte e una camicia bianca con le iniziali del nome e del cognome anch’esse blu scure, ma piccole piccole.
Appartiene a una delle maggiori famiglie di Palermo: il padre Gerlando, che ora ha 97 anni, fu nel 1946 e nel 1947 segretario particolare di Vittorio Emanuele Orlando a Roma, entrò poi nel Banco di Sicilia fino a diventarne vicedirettore generale, uno dei signori di una delle città più belle e complicate, insieme dentro la Storia e fuori dalla Storia del nostro Paese. «I nostri amici erano i nostri amici, non li frequentavamo per una ragione di interesse o di convenienza. Quell’ambiente mi ha insegnato a trattare con gentilezza e rispetto tutti: il rapporto viene prima di ogni cosa». Gentilezza e rispetto delle persone e delle gerarchie che gli consentono di rimanere sempre un metro avanti e un metro indietro rispetto all’apparenza del potere, secondo un’arte appunto molto borghese e molto siciliana.
Questo strano amalgama di cortesia e di caparbietà, di consistenza e di plasticità è la caratteristica principale di Gaetano Miccichè. Il quale ha una esperienza diretta di cose in apparenza diversissime, ma in realtà integrate e organiche, in un Paese integrato e organico come l’Italia. Una nazione bancocentrica, in cui la simbiosi fra banche e tessuto industriale è profonda, intersecata e articolata. Per tutti gli anni Novanta Miccichè lavora nell’industria e, in particolare, nell’industria in via di ristrutturazione, quella in cui si imparano di più i meccanismi di funzionamento del sistema economico e regolatorio italiano, nei suoi rapporti con il credito e con la dimensione pubblica. Nel 1989 va in Rodriquez (nautica), nel 1992 in Gerolimich (holding di partecipazioni industriali), nel 1996 in Santavaleria (chimica e vetro), nel 1997 in Olcese (tessile). Dunque, oltre dieci anni trascorsi nel capitalismo privato e nel capitalismo generato dalla crisi dell’economia pubblica di matrice Iri.
«Negli anni Novanta – ricorda, mentre sorseggia la barbera – andavo ogni due mesi da Enrico Cuccia. Mio padre lo aveva chiamato e poi mi aveva detto: “Vai a trovarlo, è nostro parente”. Cuccia e mio papà avevano in comune il nonno, Simone Cuccia, senatore del Regno d’Italia. I nostri colloqui ogni volta duravano un’ora e seguivano sempre lo stesso schema: io lo aspettavo nella sala del consiglio di Via Filodrammatici, lui entrava, passava la prima parte dell’incontro a parlare degli zii e delle zie, dei cugini e degli amici di Palermo, chi c’era e chi da tempo se ne era andato, e poi discutevamo di industria ed economia. Era curioso e ironico. Qualche volta si univa Renato Pagliaro. Mi colpiva che Pagliaro fumasse in sua presenza».
Nel 2002 Miccichè entra nell’allora Intesa-Bci. Che ha la presidenza di Giovanni Bazoli, la leadership di Corrado Passera e nella prima linea manageriale, fra gli altri, Pier Francesco Saviotti, Francesco Micheli, Stefano Lucchini e Carlo Messina. Lui guida la divisione corporate. E, in una banca autodefinitasi di “sistema”, il suo ruolo – all’interno della gerarchia – diventa importante per molti casi che compongono in questi 15 anni la partitura economica nazionale alla stregua – al di là dei singoli esiti – di una politica industriale condotta dalla banca: Yomo, Impregilo, Fiat, Piaggio, Edison-Italenergia, Prada, Alitalia, Ntv. «Lavorando a questi casi ho puntato a realizzare un metodo fatto di ricerca e individuazione delle priorità, costruendo una eccellente squadra manageriale», spiega Miccichè, che ha applicato a complesse questioni di industria e di finanza di impresa la sua capacità di lasciare che le cose si assestino in maniera naturale per poi orientarle secondo uno schema preciso. Il tutto in un processo in cui, all’identificazione e all’isolamento dei termini dell’equazione, deve corrispondere prima una strategia e infine l’esecuzione.
L’attitudine combinatoria – appunto fra il permettere alle situazioni di trovare un punto di equilibrio autonomo e fra il perimetrarle e il ricomporle secondo un disegno preciso – è una delle ragioni per cui – il “sistema” – lo ha scelto per una posizione difficile come la Lega Calcio. Il calcio rappresenta la metafora dell’Italia. «Provo a portare razionalità, senso del valore della condivisione nelle scelte e a porre le basi per una nuova fase di crescita – dice bevendo il caffè – in un mondo segnato da tutto e dal contrario di tutto, da grandi squadre dal profilo internazionale e da piccole realtà di provincia, da club molto strutturati e da club ancora indietro sotto il profilo manageriale, da imprese capaci a lavorare sulla reputazione del brand e da realtà più pittoresche che vanno aiutate ad evolvere. Le nostre società di calcio, nella loro quasi totalità, non hanno stadi di proprietà. I ricavi sono già importanti, ma ancora inferiori rispetto alla media europea. I diritti televisivi, fatta l’eccezione della Premier League, sono in linea con quest’ultima. Quello che abbiano in più sono di sicuro le più belle città del mondo per arte e turismo, cibo e vino, artigianato e moda. Se il calcio come sistema riesce a integrarsi con le città che ospitano le squadre, questo sport può diventare un vero lievito per lo sviluppo dell’intero Paese».
Il “sistema”, appunto. Le città, appunto. Palermo, Milano, Roma. E tutte le altre di un Paese insieme vitale e semplice, sfuggente e complicato, che avrà sempre bisogno di qualcuno che – con disincanto e passione – metta insieme le cose.