Libero, 15 dicembre 2018
La pena di morte no, ma ammazzare un terrorista è giusto
C’è il titolista stile «ispettore Callaghan» che su un quotidiano di centrodestra ha titolato «Un bastardo di meno» dopo l’uccisione del terrorista di Strasburgo da parte della polizia. E poi c’è il canale francese «Bfm Tv» che durante la diretta da Strasburgo, come musica di sottofondo, ha scelto la canzone di Bob Marley «I shot the sheriff» (il terrorista si chiamava Cherif) subito dopo che l’uomo era stato «neutralizzato», espressione tecnica per dire che l’avevano fatto fuori. E, qua e là, sui giornali o sui social, c’è chi ha borbottato come a chiedersi se ammazzare il terrorista Cherif Chekatt – durante un conflitto a fuoco, peraltro – fosse davvero necessario da parte di un’autorità che avrebbe dovuto assicurarlo vivo alla giustizia, se possibile. Insomma, c’è di tutto: compresa l’impressione che anche nel Vecchio continente (per non dire del nostro Paese) permanga un grande malinteso circa la facoltà di una democrazia di porre fine alla vita di un essere umano. Ricordiamo che stiamo parlando di un 29enne, radicalizzato, che aveva aperto il fuoco in un mercatino di Natale e freddato 3 persone (poi purtroppo salite a quattro, con Antonio Megalizzi morto ieri sera) dopo averne ferite altre tredici anche gravemente: ma se lo ricordiamo, ora, non è perché questo debba connotare il terrorista come persona più o meno meritevole di essere uccisa dalla polizia, ma perché il suo comportamento era stato più che sufficiente per tramutarlo da essere umano in pericolo sociale. È così che funziona nelle democrazie navigate: la morte di Stato, riservabile a chi in quel preciso momento rappresenta un evidente pericolo mortale per gli altri, è un’opzione. L’ultima, possibilmente: ma è un’opzione. Gli apparati repressivi delle democrazie possono uccidere quando il non farlo metta a repentaglio la vita di altri: così accade in molti cosiddetti blitz delle forze dell’ordine, così possono agire le teste di cuoio quando intervengono per sbloccare impasse che vedono in gioco ostaggi innocenti, così fecero – sempio un po’ forte – nell’operazione che portò alla fine di Bin Laden. Ma è un’opzione razionale, una gravosa valutazione costi/benefici, non c’entra l’essere garantisti o forcaioli, non c’entra l’odiosità dei reati compiuti dal terrorista di turno: non è che uno Cherif Chekatt che avesse ammazzato cento persone l’avrebbe reso più meritevole della sorte che ha avuto. Rintracciato dalla polizia dopo due giorni, Cherif Chekatt ha reagito sparando per primo e ha rischiato di allungare la scia funerea che si portava dietro. Andava fermato nel modo in cui era possibile farlo. Non c’entra l’essere o no favorevoli alla pena di morte, anzi: uno Stato cerca di rimuovere il pericolo, poi se lo rimuove assicurandolo alla galera a tempo indeterminato – anziché essere costretta a ucciderlo – utto sommato è meglio, molto meglio: così che sia ancora più chiaro che un’azione di polizia non è una rappresaglia né rappresenta una stupidissima vendetta sociale. Non hanno sparato a Cherif Chekatt perché era un bastardo, ma perché era un pericolo.