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 2018  dicembre 15 Sabato calendario

L’anno nero degli hedge: chiusi 580 fondi

Che cosa ha messo in fuga le «locuste»? Più delle incertezze geopolitiche, è l’improvvisa morìa degli hedge fund, i grandi «predatori» della finanza speculativa, a tenere banco sui mercati finanziari. La selezione naturale esiste sui mercati come in natura, ma in questo caso sembra quasi un’epidemia: le chiusure di fondi alternativi hanno superato quest’anno ogni record negativo, evidenziando la stessa dinamica del peggior periodo della grande crisi finanziaria. 
Tra gennaio e metà dicembre, sono oltre 580 gli hedge fund che hanno deciso di chiudere i battenti e restituire il capitale ai clienti, il numero più elevato del decennio e soprattutto superiore alla dinamica delle aperture, ferme a quota 552 secondo la società specializzata Eurekahedge. Che non sia un fenomeno passeggero è un dato di fatto: il 2018 segna il terzo anno consecutivo di «correzione» per la compagine dei gestori speculativi, un’elite della finanza che in meno di vent’anni ha creato un mercato da 3.500 miliardi di dollari. 
Anche se le Borse e i bond si trovano in una fase estremamente critica, non è facile stabilire che cosa stia veramente accadendo dietro le quinte del mercato: c’è chi attribuisce l’esodo degli operatori alla percezione di un nuovo terremoto finanziario in arrivo, e chi sostiene la tesi di una selezione naturale accelerata dalla massiccia introduzione del trading quantitativo. 
Ma c’è anche chi guarda oltre la congiuntura e la tecnologia: il fenomeno riguarda i nomi più autorevoli e di successo di Wall Street: dal banchiere John Paulson, famoso per aver guadagnato 15 miliardi di dollari speculando sulla crisi dei mutui subprime, fino a Philippe Jabre, finanziere di lungo corso che ha «gettato la spugna» appena due giorni fa pur essendo stato tra i primi ad entrare vent’anni fa negli investimenti speculativi. Ma si potrebbero aggiungere all’elenco anche finanzieri «missing in action» come John Jacobson e Andy Hall, che negli anni d’oro si faceva chiamare «il Signore del petrolio» per i miliardi guadagnati speculando sul greggio, o anche come Daniel Loeb, che solo due anni fa aveva promesso 10 anni di guadagni ai suoi facoltosi clienti. Un caso emblematico è anche quello di Jason Karp, decano riconosciuto dei fondi speculativi americani: dopo appena 5 anni,il finanziere ha chiuso pochi giorni fa il Tourbillon Global Master Fund, un hedge fund da un miliardo di dollari considerato come il «salotto buono» dei miliardari. «Il mercato è cambiato - ha scritto Karp ai clienti - e il modello di hedge fund che conoscevamo è ormai superato: meglio chiudere che perdere». Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Tutta la generazione dei grandi «rain maker» di Wall Street sta restituendo capitali agli investitori o trasformando gli hedge fund in Family Office.  
Certo, dopo 10 anni di denaro gratis fornito a piene mani dalle banche centrali, non solo si profila ora una fase di bassa marea per la liquidità, ma si sono anche ridotte le opportunità di guadagno soprattutto per i gestori della vecchia guardia, la generazione di finanzieri americani che decidevano gli investimenti non con i computer ma studiando grafici e bilanci. In realtà, i problemi riguardano oggi anche i nuovi ingegneri della finanza tecnologica: gli algoritmi hanno funzionato bene e garantito grandi profitti finché il mercato ha avuto una crescita costante, ma il boom della volatilità che ha caratterizzato l’anno finanziario 2018 sembra aver mandato in crisi anche la validità dei modelli di trading quantitativo.Insomma, il 2019 non si apre nel segno dell’euforia speculativa degli ultimi dieci anni. Incertezza geopolitica ed economica, guerre commerciali, regole più stringenti, minore liquidità e volatilità dei prezzi: un mix perfetto per spiazzare non solo i vecchi gestori, ma persino i nuovi modelli matematici costruiti per navigare con l’alta marea, ma incapaci di stare a galla se il clima peggiora.