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 2018  dicembre 15 Sabato calendario

Quando i Romani temevano i migranti bianchi e biondi

Se gli immigrati che premono ai confini fossero bianchi e biondi, anziché, perlopiù, scuri di pelle e di capelli, susciterebbero meno inquietudine? Probabilmente no, giudicando da quello che i Romani pensavano dei Germani. Ma Umberto Roberto, in Il nemico indomabile. Roma contro i Germani (Laterza, pp. 391, € 24), ci ricorda che prima delle invasioni barbariche c’era stato il tentativo dei Romani di invadere e sottomettere la Germania: perseguito con ostinazione da Augusto, e fallito per il tradimento del cavaliere romano Gaio Giulio Arminio, principe dei Cherusci. Le generazioni future, ignorando la sua carriera nell’esercito di Roma, lo immagineranno come un barbaro selvaggio dall’elmo cornuto, alimentando nell’immaginario europeo i miti contrapposti dei Germani (e quindi dei Tedeschi) come feroci distruttori, o come eroici difensori della propria libertà.
Sulle radici storiche di un’altra ossessione del nostro tempo riflette Francesco Benigno, professore alla Normale, in Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica (Einaudi, pp. 366, € 32). Un’ossessione fondata su un fraintendimento, fin dal nome: gli attentati non servono a generare terrore, ma sono atti di propaganda, eventi pubblicitari in nome di una Causa. Ma i nomi sono importanti: solo dopo che la Rivoluzione Francese ebbe introdotto il Terrore fra le parole della politica il terrorismo è salito alla ribalta della storia. Da quel pericoloso terrorista, latitante e condannato a morte, che fu Giuseppe Mazzini, agli anarchici che a cavallo del Novecento sterminavano imparzialmente monarchi e presidenti, il terrorismo è da due secoli un’opzione sempre possibile, anche se estrema, dello scontro politico europeo e poi globale.
Un genere storiografico apparso da poco e fortunatissimo nelle preferenze dei lettori è il libro che ripercorre la storia del mondo, o di un pezzo di mondo, attraverso un numero simbolico di oggetti, che siano dodici mappe o dodici manoscritti. Su questa scia Amedeo Feniello e Alessandro Vanoli propongono la Storia del Mediterraneo in 20 oggetti (Laterza, pp. 190, € 20). Fra arnesi un tempo quotidiani e oggi confinati nei musei – l’anfora, l’abaco, la spada – e altri che sono sempre con noi, come la padella, la chitarra o la valigia, scopriamo, con il piglio di una vivace narrazione e senza cadere nel politicamente corretto, che il Mediterraneo, dove gli uomini si sono sempre scannati e odiati, è la sede di un’unica civiltà, fondata, da sempre, sugli spostamenti e gli scambi.
Quella civiltà è diventata la civiltà dell’Europa, e poi del mondo. Una dopo l’altra, tutte le civiltà create dall’uomo negli altri continenti hanno dovuto subirne l’invasione. Andrea Revelant ne Il Giappone moderno. Dall’Ottocento al 1945 (Einaudi, pp. 599, € 34) ricostruisce con estrema competenza la vicenda del paese extraeuropeo che ha raccolto la sfida nel modo più spettacolare, raggiungendo gli occidentali in pochissimi anni sul piano tecnologico, organizzativo e militare, e conservando gelosamente al tempo stesso il cuore della propria civiltà. Un exploit apparentemente felice che in realtà ha generato tensioni insopportabili all’interno della società giapponese, fino a sprofondare il paese nella catastrofe atomica.
A proposito di catastrofi, usciamo appena ora da cinque anni nel corso dei quali il ricordo della Prima Guerra Mondiale è stato sempre con noi, continuamente rinverdito da anniversari, commemorazioni e congressi. E’ probabile che dopo questo fiume di parole non sentiremo più parlare della Grande Guerra per una cinquantina d’anni, ma siamo ancora in tempo per segnalare la pubblicazione di una fonte interessantissima, un pezzo del diario di Angelo Gatti, E la guerra. Diario maggio-agosto 1915 (Il Mulino, pp. 300, € 24). Scrittore famoso ai suoi tempi, l’astigiano Gatti era ufficiale di carriera, vicinissimo a Cadorna; il suo sguardo pungente e impietoso rivela le speranze e gli smarrimenti dei nostri militari precipitati in una guerra diversa da tutte le altre.
Finalmente, è bene ricordare che si può fare storia, e grande storia, anche attraverso altre discipline: la letteratura, per esempio. Francesca Ghedini, curatrice della grande mostra su Ovidio alle Scuderie del Quirinale, in Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo (Carocci, pp. 325, € 29) non racconta soltanto una vita e un’opera, ma un mondo, quello della jeunesse dorée romana, così ricca da potersi concedere ogni capriccio; una generazione, quella che non fece a tempo a partecipare alle guerre civili e conobbe solo le lusinghe della pace di Augusto; infine tutta un’epoca, d’oro, sì, ma in cui un passo falso poteva costare carissimo e anche i poeti dovevano stare attenti a non parlare troppo.