La Stampa, 15 dicembre 2018
Il Kosovo crea l’esercito. L’ira della Serbia
Il dialogo difficilmente costruito che salta, scaramucce, dazi, proteste, tensione alle stelle. È sempre più grave la crisi tra Serbia e Kosovo, «nemici» che Bruxelles era riuscita a portare al tavolo negoziale per raggiungere un accordo per la normalizzazione dei rapporti, ma che da più di un mese hanno dissotterrato l’ascia di guerra, in una spirale di crisi inarrestabile.
Crisi che ieri ha toccato l’apice, con il Kosovo – ex provincia serba resasi indipendente nel 2008, riconosciuta da un centinaio di Stati, ma non da Belgrado e da cinque Paesi Ue – che ha fatto un passo storico. E assai azzardato. Ha dato infatti luce verde alla trasformazione in esercito regolare delle sue Forze di sicurezza, finora una sorta di corpo di protezione civile con armi leggere. Mossa, da lungo pianificata, accolta da festeggiamenti e caroselli, in una Pristina tappezzata da bandiere Usa e di altri Paesi amici, tra cui l’Italia, vissuta con sconcerto nelle aree fedeli a Belgrado, pavesate con vessilli serbi. Decisione che è stata criticata da Ue, Onu, Nato e Russia – ma non dagli storici alleati del Kosovo, gli Stati Uniti – per tempistica e per modalità, con Mosca che si è spinta a chiedere alla Nato di «smobilitare le formazioni albanesi».
Ma ad aver i nervi tesi è soprattutto la Serbia, che considera l’esercito di Pristina come una minaccia alla sicurezza dei serbi che vivono nel Nord del Kosovo. E come una violazione della risoluzione Onu 1244, che prevede che, dopo la guerra del 1999, possano operare nella regione esclusivamente truppe Nato. Belgrado ha chiesto così la convocazione urgente del consiglio di Sicurezza Onu, mentre il consigliere del presidente Vucic, Nikola Selakovic, ha suggerito che la Serbia potrebbe dichiarare il Kosovo «territorio occupato». O addirittura pensare all’intervento militare, opzione che appare però irrealistica, anche se il clima è di gran nervosismo, con truppe Nato dispiegate a Nord, ufficialmente per esercitazioni, in realtà per prevenire incidenti. Più conciliante la premier Ana Brnabic, che ha ieri assicurato che Belgrado «continuerà sulla strada di pace e stabilità».
Stabilità che è però a rischio già da novembre, dopo che Pristina ha introdotto dazi al 100% sulle merci della Bosnia, colpevole di non riconoscere Pristina. E naturalmente su quelle serbe, rappresaglia contro l’ostruzionismo di Belgrado all’ingresso del Kosovo in Interpol, balzelli che rimarranno in vigore fino a quando Belgrado «non riconoscerà» Pristina, ha più volte ribadito il premier kosovaro, Ramush Haradinaj.
Muro contro muro pericoloso e «da anni non ero così preoccupato», ammette il politologo James Ker-Lindsay, ricordando che la spirale del rancore nasce dalla «frustrazione di Pristina» per le iniziative di Belgrado per ridurre il numero di Paesi che riconoscono il Kosovo. Ma si indirizza pure verso Bruxelles, che malgrado le attese a Pristina, soprattutto della gente comune, ancora ritarda la «liberalizzazione dei visti» per i kosovari, ultimi in Europa a non poter viaggiare se privi di permessi. E questo è il momento «di riportare le parti al tavolo negoziale», aggiunge l’analista. Qualche chance, forse, c’è. «Quanto hanno fatto gli albanesi è contro il diritto internazionale e contro la propria Costituzione», ha attaccato in serata il leader serbo Vucic, assicurando che la Serbia proteggerà i serbi del Kosovo dall’esercito di Pristina, se necessario.
Ma ha poi aggiunto che «monitoreremo con attenzione tutto quanto accade in Kosovo, aspetteremo» che Pristina «tolga del tutto i dazi e allora la Serbia sarà pronta a discutere», di nuovo. Ma la mano tesa va colta, prima che sia troppo tardi.