«Sì, perché è stato il primo disco in cui ho messo nella canzone tanti elementi diversi, rock, pop, country. E cambiava anche il mio modo di suonare. Anzi, quando sarò morto, il più tardi possibile s’intende, mi piacerebbe che qualcuno studiasse il modo in cui suono il pianoforte. Non faccio quello che insegnano a scuola, se lo avessi fatto non sarei arrivato a scrivere quello che ho scritto…».
Era un disco che raccontava l’Italia che avevi davanti agli occhi, un’Italia, violenta ma anche appassionata.
«Anche molto contraddittoria. E anche un’Italia paradossalmente libera. Il disco uscì l’8 marzo, una settimana dopo ci fu il rapimento di Aldo Moro, in teoria sarebbe stato molto difficile incastrarlo in quei tre mesi di assoluto incubo che l’Italia stava vivendo. Invece il disco non fu cancellato dagli eventi, perché diceva una cosa piccola, semplice e vera: “...Ma tutto quel che voglio, pensavo, è solamente amore. Ed unità per noi, che meritiamo un’altra vita. Più giusta e libera se vuoi”. Era quello che volevano tutti. Un paese che riesce, in un momento come quello, ad avere come sua colonna sonora una canzone così è un paese molto forte».
Quando scrive pensa che ancora oggi le canzoni possano incidere sulla realtà?
«Tutte le arti possono farlo, l’importante è che esista la libertà di poter esprimere la propria arte. E oggi siamo sicuri che esista la libertà? Dovremmo rifondarla, ricominciare da capo, pensare che quando si nasce non sappiamo di essere italiani o svizzeri, non sappiamo se siamo bianchi o neri, abbiamo tutto il tempo per sapere e capire chi siamo. Dovremmo fare così anche oggi, cambiare».
Ma oggi si parla molto, soprattutto in politica, del cambiamento.
«E io sono favorevolissimo ai cambiamenti, perché so che se l’Italia cambia in peggio può cambiare anche in meglio. Ma il problema oggi è che l’unica cosa che ti dà la possibilità di scegliere, di dire no, di essere libero sono i soldi. Quando saremo liberi nelle nostre scelte senza aver bisogno dei soldi, tutto potrà cambiare davvero».
Sono passati quaranta anni da “Sotto il segno dei pesci”, ma la musica di oggi le piace?
«Potrei rispondere che dipende da quale musica si prende in considerazione. Ma preferisco sottolineare che chi non capisce i tempi che viviamo ha qualcosa di sbagliato in sé. Ogni generazione ha avuto la sua musica e la generazione precedente ha detto che era brutta o astrusa. Quello che so è che la musica è bella se ha quel piccolo quid universale che colpisce, che in qualche modo si chiama poesia. E tutte le generazioni hanno qualche goccia di poesia nella propria musica. Anche oggi c’è qualcosa di sottile che striscia e che i ragazzi sentono come vera, ma che possiamo cogliere, con orecchie aperte, anche noi. Ma c’è un gap generazionale, non si coglie quel pizzico di eternità che il futuro ha con sé. Una sola critica mi sento di fare, quella di una mancanza di passionalità: è tutto basato sulla parola ma una parola non accorata, non passionale. È come se si parlasse con un robot, è la risposta che vorresti da Siri».
Uno “stile Venditti” esiste anche se nelle sue canzoni tutto è sempre cambiato.
«Chi non cambia o è stupido o è morto. Io ho ancora la curiosità di vedere come andrà a finire, e quindi la voglia di ricreare sempre il mio linguaggio. Sennò rimarrei al tempo di Sotto il segno dei pesci, che amo tantissimo, che è ancora parte di me, ma non tutto. Nel frattempo io sono cambiato».