la Repubblica, 15 dicembre 2018
Il senso del tatto nell’era digitale
Tra le più comuni e aspre lamentele di chi condanna quest’era cibernetica c’è quella che descrive l’homo digitalis come un essere isolato e solitario – un eremita malgré lui, un anacoreta profano nel deserto del reale. È questo a disumanizzarlo, dicono, a farlo diventare cupo ed introverso, insensibile, e potenzialmente meno avverso (o più aperto) alle ideologie dell’odio e della distruzione. Il paradosso, tuttavia, è palese e anche abbastanza ovvio: questo isolamento è fondato su di un collegamento perenne, costante e addirittura maniacale, a quel mondo che è stato abbandonato.
L’homo digitalis, infatti, è un essere connesso al mondo esterno in maniera ossessiva al punto che bisognerebbe semmai lamentarsi della sua incapacità di solitudine, del suo folle bisogno di essere “in contatto”. Ma a che tipo di contatto anela questa creatura post-postmoderna che – è forse ora d’ammetterlo – è ciò che noi tutti siamo? Certamente non un contatto fisico. Il lamento dei detrattori del mondo virtuale ha infatti a che vedere con la questione della mancanza di corpo che implica, per loro, la perdita di una certa “umanità” fondata sull’affezione e l’empatia che solo l’incontro di persona, la presenza fisica e corporea possono garantire.
L’homo digitalis è un essere incorporeo, un fantasma fatto di parole e d’immagini. Non può toccare e non può essere toccato, come i morti invocati da Ulisse nella nekyia dell’XI canto dell’Odissea. Il tipo di legame cercato dall’emarginato che partecipa del mondo attraverso uno schermo non dipende quindi dalla prossimità e non si basa sul tatto. Ciononostante, esso rimane una forma di contatto: un contatto senza tatto. È per questo che la questione della presunta perdita di umanità – di un’umanità intesa come condizione altruistica, sentita e solidale fondata sul toccare – dipende dall’ostica questione della natura multiforme del senso del tatto. Il tatto non è uno ma molti sensi. Aristotele, il primo a classificare i sensi come cinque, l’intuì quando nelle sue indagini sulla generazione degli animali, e in modo ancor più celebre, nel suo trattato sull’anima, si trovò in ardua difficoltà nel momento in cui s’apprestava ad analizzare questo senso. Per un uomo così affezionato alle dicotomie e alle simmetrie concettuali com’era lo Stagirita, il senso del tatto presentava dei problemi piuttosto disagevoli. Se l’organo della vista è l’occhio e il suo mezzo la luce, qual è l’organo del tatto? La pelle? La mano? Ed il suo mezzo? La carne, forse? Se gli altri sensi oscillano tra estremi opposti di spettri percepibili (bianco e nero, acuto e grave, dolce ed amaro), quali sono gli estremi che definiscono lo spettro della percezione tattile? Aristotele non riesce a rispondere queste domande concludendo che si tratta, comunque, del senso più basso e degradato (il più animale), mentre la vista è il più nobile.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, lo storico dell’arte austriaco Aloïs Riegl conia il termine “aptico” (dal verbo greco haptomai,“toccare”) per riferirsi a queste facoltà intra-sensibili che combinano visione e tatto. Deleuze recupera il concetto di aptico nei suoi scritti su cinema e pittura, ed identifica Bresson e Bacon come due esempi di artisti “aptici” che costruiscono uno spazio tattile tramite l’immagine visuale. Negli ultimi decenni, però, il campo semantico dello aptico si espande e la parola viene impiegata per rendere conto di un’ampia varietà di operazioni che non sonostricto sensu tattili, ma appartengono comunque all’universo del tattile.
La parola entra altresì a far parte del lessico informatico. Lo sviluppo dell’interfaccia aptica, che dà all’utente un feedback tattile, ha portato anche al disegno di prodotti che permettono un’interazione da remoto tramite il tocco. La teletattilità ( telehaptic) fa riferimento a sensazioni aptiche (pressione, temperatura, movimento, vibrazione) generate da un computer. Dai dispositivi per portatori di handicap, dalla chirurgia robotica a videogame e giocattoli erotici, la varietà di invenzioni che possono servirsi di queste nuove tecnologie è gigantesca. Scienziati come Sliman Bensmaia dell’Università di Chicago hanno addirittura disegnato con grande successo un braccio prostetico che, attraverso una connessione al cervello, restituisce al paziente amputato una sensazione tattile.
Il futuro di queste tecnologie è promettente quanto inquietante. «L’uomo moderno ha un’epidermide al posto di un’anima», scrisse James Joyce in un saggio del 1912. Lo scrittore irlandese mette in risalto quello che considera il primo comandamento della vita moderna: la ricerca della felicità, intesa come piacere tattile.
Autoindulgente, narcisista, arrogante, l’uomo moderno – suggerisce Joyce – ha solo una superficie, è pura pelle. Per quanto lo scrittore non abbia tutti i torti, per quanto la riflessione possa sembrare anche più adatta all’homo digitalis del terzo millennio, conviene per concludere ricordare il paradosso che caratterizza l’apparato tegumentario: la pelle, l’organo più vasto del corpo e forse anche il più complesso, tra le sue tante funzioni, ha anche quella di proteggerci dal mondo come un efficiente imballaggio mentre, allo stesso tempo, ci permette di entrare in contatto con esso attraverso la tattilità. Questo per dire che esistiamo da sempre e per sempre inesorabilmente isolati e collegati, o, nelle parole di Walt Whitman, together alone. Internet, il corpo mostruoso di una bestia apocalittica con la pelle fatta d’infiniti schermi, non fa altro che replicare su larga scala questo dramma basilare.