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 2018  dicembre 15 Sabato calendario

La bambina di 7 anni morta disidratata al confine con gli Usa

Per ora si sa solo che aveva sette anni e si chiamava Jakelin Caal. Ma basta e avanza per riaccendere l’attenzione e la polemica sui migranti al confine con il Messico. Nella tarda serata di giovedì 13 dicembre una nota diffusa della Us Customs and Border Protection informa che il 7 dicembre, nel Providence Children Hospital di El Paso è morta una bambina catturata dagli agenti del Border Patrol il giorno prima a Lordsburg, nel deserto del New Mexico. La prima diagnosi, in attesa dei risultati dell’autopsia: febbre alta, choc setticemico, disidratazione. La bimba era con suo padre e un gruppo di 163 migranti. Arrivavano dal Guatemala e avevano appena attraversato il Rio Grande, pagando ai «coyote», i trafficanti di esseri umani, 13 mila dollari a testa. Gli agenti americani li hanno sorpresi alle 10 di sera del 6 dicembre, li hanno ammanettati e portati in un centro di detenzione. Alle 6.25 del giorno dopo, si legge ancora nel referto, la piccola era in preda alle convulsioni. Un medico l’ha visitata: non aveva né mangiato né bevuto da molto tempo. Temperatura corporea: 40,9 gradi. A quel punto un elicottero la trasporta a El Paso. Ma non c’è nulla da fare. «Muore meno di 24 ore dopo il suo ricovero», scrive il Washington Post che dava per primo la notizia. 
Ieri mattina uno dei portavoce della Casa Bianca, Hogan Gidley, commenta con i reporter: «Si è trattato di una situazione orribile, tragica: i nostri cuori sono con la famiglia...». La «tragedia – continua Gidley – era evitabile al 100%. Servono leggi per disincentivare queste persone dall’attraversare illegalmente il confine». 
Poco prima la ministra per la Sicurezza interna, Kirstjen Nielsen, in un’intervista a Fox News, aveva respinto le proteste degli attivisti dell’Aclu, l’American Civil liberties union, che avevano accusato la Border Patrol di alimentare «una cultura della crudeltà».
In realtà lungo i 3.200 chilometri di frontiera c’è soprattutto una grande confusione. La carovana dei migranti è arrivata quasi al completo a Tijuana, la città messicana della California, di fronte a San Diego. Sono quasi 7 mila persone, in gran parte provenienti dall’Honduras, accatastate negli accampamenti sempre più affollati e in condizioni igieniche pietose. La tensione è sempre alta. Un gruppetto di circa 200 persone ha assediato il consolato americano di Tijuana. Obiettivo: consegnare «una proposta» alle autorità degli Stati Uniti. Volete che ce ne torniamo a casa? Dateci 50 mila dollari a testa e rimuovete il presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernández, incapace di liberare il Paese dalle gang criminali. È la mossa della disperazione. Un patto che la ministra Nielsen ha definito «oltraggioso». 
Ma il vero problema, ormai drammatico, è che l’amministrazione di Washington non sa come uscirne. La carovana resta piantata a Tijuana, nel frattempo il flusso dei migranti cresce anche altrove. 
Lungo il tragitto percorso dalla bambina del Guatemala, la Border Patrol ha intercettato 25.172 migranti nel novembre scorso. Una cifra record. Circa la metà sono bambini e ragazzi, cui vanno aggiunti 5.283 «minori non accompagnati». Donald Trump ha risposto all’emergenza inviando 5.600 soldati con il compito di rinforzare le reti di protezione e di «assistere» la polizia doganale. Resteranno fino al 31 gennaio. Nel frattempo tutto il resto è rimasto uguale. In Texas, New Mexico e Arizona le strutture di accoglienza e anche quelle di detenzione sono largamente insufficienti. Gli uffici non riescono a smaltire più di 60-100 richieste di asilo al giorno; i tribunali, che devono convalidare le eventuali espulsioni, sono travolti. I fautori della linea dura a Washington sono costretti, per un amaro paradosso, a chiedere aiuto alle organizzazioni di volontari, spesso religiose, che lavorano da anni, e in silenzio, per dare acqua, un piatto di minestra e anche un giocattolo ai bambini che si ritrovano all’improvviso in una terra sconosciuta.