Idrissa Akuna Elba (questo il nome completo) vive facendo la spola tra Los Angeles e la sua Londra.
Cosa significa “Yardie”?
«È un termine che mi è noto fin da giovane, un dispregiativo usato per descrivere gli immigranti giamaicani londinesi negli anni 70. Il trauma di un giovane che perde il fratello mi è sembrato un veicolo perfetto per raccontare quella cultura. Insomma, yardie era il modo in cui Scotland Yard definiva la cultura delle gang a Londra, “quelli del cortile” delle case popolari nelle zone povere di Londra. Abbiamo intitolato il film così perché almeno in Inghilterra il pubblico capisce al volo di cosa si sta parlando».
Lei ha fatto parte di questo mondo?
«Per mia fortuna no. Ho provato le droghe, ma non ho mai fatto parte di gang, ed ho avuto la fortuna di scoprire la recitazione e il teatro fin dalle scuole medie. Il mio mondo è stato sempre quello. Grazie anche a due genitori che mi hanno guidato e sin da piccolo mi hanno marcato stretto».
Però anche lei ha avuto un periodo difficile.
«Non lo nego. Quando sono andato a New York in cerca di fortuna, dopo una separazione che mi ha fatto molto soffrire, aspettavo che il telefono squillasse. Per tre anni è rimasto muto. Un periodaccio. Se non dormivo sui divani degli amici stavo in un minivan, quando potevo lavoravo come buttafuori. Ho fatto la vita dell’homeless. Poi è arrivata la serie tv The Wire, una svolta. La vita è cambiata dalla sera alla mattina».
Com’è stato il salto dietro la cinepresa?
«Incredibile: amo recitare, lo farò per sempre, ma vedo la regia nel mio futuro. Mi sento portato, mi viene naturale».
Ci hanno illusi che sarebbe stato lei James Bond dopo Daniel Craig.
«La verità è che ormai sono troppo vecchio per quel ruolo. Però è John Luther il vero James Bond. E comunque sono convinto che il prossimo 007 dovrebbe essere una donna».
Le piacciono e donne forti?
«Le donne forti e in ruoli di potere per me sono sexy. Ma donne di potere e pericolose? Humm humm, irresistibili!».
Viviamo in un periodo di rinnovate tensioni razziali: cosa sente al riguardo?
«Strano a dirsi il razzismo sembra avere un impatto più forte adesso di quando ero ragazzino. È vero, ci sono rigurgiti retrogradi. Da giovane mi trasferii dal quartiere Hackney di Londra, una zona tipicamente bianca, anche se operaia, a Canning Town. Ricordo che contro noi neri lanciavano epiteti, ma non così offensivi. Oggi il livello di cattiveria e aggressività nei confronti degli immigrati e delle persone di colore in generale è molto peggiorato. Grazie anche alla retorica irresponsabile e ignorante di tanti nostri politici: in Inghilterra, come in Usa o da voi in Italia. E un po’ dappertutto in Occidente».
È stato così anche a New York?
«Ci ho vissuto prima dell’11 settembre e non ho mai sentito vere tensioni razziali in città. Ma poi qualcosa è cambiato. S’è fatta strada la diffidenza. C’era un terrorismo invisibile da combattere, spesso di pelle scura. La gente ha cominciato a fare domande, a chiedermi “Ehi, e tu da dove vieni?”. Accidenti, una sensazione veramente spiacevole. Anche per questo ho deciso di passare più tempo a Los Angeles: c’è più spazio per tutti, meno calca e più tolleranza».