La Stampa, 14 dicembre 2018
Intervista a Omar Pedrini: «Il destino mi ha messo in catene»
Omar Pedrini è un artista ormai distante dal primo capitolo della sua vita artistica. Da quel gruppo musicale chiamato Timoria, che nell’autobiografia di questo bresciano di 51 anni arriva subito dopo il sommario. Omar Pedrini di quel marchio Anni 80 se ne è liberato da tempo. «Dalla musica però no - confessa - da quella non riesco a liberarmi, anche se mi piace scrivere libri. In quest’ultimo racconto quello che la musica mi ha regalato: incontri, canzoni, occasioni e luoghi che mi hanno messo in discussione, salvandomi a volte, tra precipizi e svolte».
Con Pedrini la vita è stata severa, lo ha fatto passare attraverso tre interventi a un cuore ballerino che nel 2004 (la prima operazione fu per un aneurisma aortico) si è messo a sobbalzare fuori tempo e gli ha completamente cambiato la prospettiva, mettendolo davanti una realtà che mai avrebbe immaginato. Cinque anni fa, su un palco a Roma, un altro malore, un altro stop ed è lì che gli è venuta voglia di scrivere Angelo ribelle. Leggendolo, si scopre un libro dove ogni capitolo è legato l’uno all’altro per raccontare l’unica storia possibile di un uomo buono e complicato.
Omar, perchéAngelo ribelle?
«È il titolo di una canzone che ho fatto con Ian Anderson e parla delle mie anime. Vivo di contraddizioni: c’è chi dice che si nasca incendiari e si muoia pompieri, io voglio morire da piromane. Mi sono sempre sentito dentro l’angelo di Paul Klee».
C’è un capitolo intitolato: «Volevo fare il giornalista». Un rocker come lei dall’altra parte della barricata?
«Al liceo volevo fare il giornalista perché amavo Veronelli, Buzzati, Brera. Era l’Omar che pur arrivando da una famiglia umile veniva ammesso al più prestigioso liceo di Brescia per meriti scolastici. Lì mi sono confrontato con i classici: Enea che lascia Troia in fiamme ma vuole tornare a prendere sulle spalle suo padre Anchise per salvarlo da morte certa. Mi sarebbe piaciuto rubare i manuali ai situazionisti di un tempo per spingere i giovani a fare fatica».
Ci sono capitoli sulla droga.
«È come se scrivessi a mio figlio Pablo che ha 25 anni, fa le sue scelte e mi contesta. So che è giusto così. Questo libro è un modo per parlare a lui».
Non può rimanere nascosto «Il salto delle streghe».
«Il salto delle streghe è un’enorme roccia, si vede il borgo operaio delle mie radici; quel cotonificio di Campione del Garda di 400 anime: lì è partito tutto».
C’è anche il capitolo «Addio amico diVino» con la V maiuscola.
«Il capitolo più caro, quello dedicato a a Gino Veronelli, compagno di banco di GianGiacomo Feltrinelli. Gino mi “adottò” dicendo che ero il figlio maschio che aveva sempre desiderato. Era un gigante. Sulle sue spalle ho potuto vedere cose che non mi sarei mai aspettato».
«Maiquaquaraquà» cosa significa?
«Che sono sempre stato integro, forse un po’ rompiballe ma sempre a schiena dritta. Sono un “hombre vertical”. Non mi pesano le rinunce e guardandomi allo specchio non vedo scelte sbagliate. Forse alcune scelte strane: nel libro le racconto tutte».
Verso la fine ritira in ballo i Timoria. «Hybris e Timoria».
«La Timoria è la vendetta degli dei nei confronti dell’uomo, per la sua tracotanza. L’hybris era quello di noi ragazzini alle prime armi innamorati della musica, la vendetta nei confronti di chi non ci capiva. A 14 anni papà mi disse: o la chitarra o il motorino. Non mi sono mai pentito».
Chiude il libro «Come se non ci fosse un domani». E invece un domani ci sarà.
«Mia nonna Nina diceva: con la musica non sarai mai solo. Con tutti i miei problemi di salute, grazie a un luminare sono tornato a cantare, anche se ogni sei mesi vengo ric—overato per due giorni per un controllo totale. L’uomo saggio vive ogni giorno come se fosse l’ultimo e impara come se non dovesse morire mai. Il destino mi ha messo queste catene però mi ha dato valori. Sono cinque anni che lavoro per estrarre da me stesso gli acini migliori, credo di essere diventato abile a sceglierli bene».