La Stampa, 14 dicembre 2018
Manovra, un percorso disseminato di incognite
Come andrà a finire? Meglio non scommettere ma, se dovessi farlo, punterei su un rinvio del giudizio: la Commissione non proporrà l’inizio di una procedura di penalizzazione per l’Italia, rinviando a primavera la valutazione finale. Conte ha annunciato un deficit del 2,04% del Pil, invece del 2,4. Il nuovo obiettivo millimetrico legittima battute ironiche (pure io mi sono lasciato andare a un tweet in cui, celiando, mi sono chiesto se il 2,4 iniziale non fosse solo il risultato di un «refuso», l’omissione di uno zero), ma segnala la volontà di arrivare a un compromesso.
Moscovici ha detto che non basta e che uno sforzo ulteriore deve essere fatto, ma ha anche aggiunto «forse da entrambe le parti». Insomma, il «mercato delle vacche» come qualcuno l’aveva definito, starebbe comunque portando a una convergenza. Ciò detto i problemi restano e se anche una crisi immediata fosse evitata, rimarremmo molto esposti a incidenti di percorso di vario genere.
Ma vediamo prima di tutto a che punto stiamo. Perché penso si eviterà l’inizio immediato di una procedura di infrazione? Un deficit del 2,04 per cento è vicino al livello medio del deficit nel periodo 2016-18. Sparirebbe quindi quel segnale di forte aumento del deficit che rappresentava uno schiaffo all’Europa e alle sue regole. Inoltre con il recente peggioramento delle nostre condizioni di crescita diventa più facile, in base alle stesse regole europee, accettare un rallentamento del processo di aggiustamento dei nostri conti pubblici. Infine, gli sviluppi francesi potrebbero indebolire il fronte dei falchi fiscali.
I mercati sembrano aver accolto favorevolmente la notizia di un deficit intorno al 2 per cento, con un calo dello spread, rispetto a qualche settimana fa, di quasi mezzo punto percentuale. Lasciatemi dire che «avevo visto giusto». In un articolo pubblicato il 31 luglio su queste colonne avevo scritto che, alla fine, il governo italiano si sarebbe orientato verso un deficit del 2-2,1 per cento e che la reazione dei mercati non sarebbe stata negativa. Scrivevo che «magari ci sarebbe un aumento dello spread ma… il temuto balzo dello spread in un territorio di non ritorno potrebbe essere rinviato». Ora lo spread sta addirittura scendendo, anche se da un livello ben più alto di quello prevalente a fine luglio (intorno ai 230 punti base): insomma, si potrebbe arrivare magari a 250 punti base, anche se dall’alto invece che dal basso, come scrivevo allora. Certo, c’è da chiedersi se non era meglio evitare questo scontro con l’Europa: se anche i tassi di interesse tornassero rapidamente dove erano a inizio maggio, lo scherzo sarebbe comunque costato allo stato un miliardo e mezzo per il 2019. Va be’, c’hanno provato e non ha funzionato.
Guardando in avanti ci sono due incognite. La prima è più contingente: troppi aspetti della manovra vanno ancora chiariti. Per esempio, su quali ipotesi di crescita è basato il 2,04 per cento? Nessuno ancora ce l’ha detto e l’obiettivo di crescita originale (1,5 per cento) appare ormai sempre più irraggiungibile. Inoltre, cosa farà il governo per ridurre il deficit dal 2,4 al 2,04 per cento? Conte ha detto che le misure chiave (reddito di cittadinanza, quota 100) sono confermate ma che le «relazioni tecniche» ora dicono che costeranno meno del previsto. Crediamogli, ma perché costerebbero meno, quando già gli stanziamenti originali sembravano largamente insufficienti? Ci saranno più «paletti»? Si rinvierà di qualche mese l’entrata in vigore delle «misure»? Infine, che succederà al deficit e al rapporto tra debito pubblico e Pil al di là del 2019? Anche qui, buio assoluto. Sembra difficile che il governo e la Commissione raggiungano un accordo su tutti questi punti nei prossimi giorni. La Commissione allora potrebbe sì rilevare, per il momento, l’esistenza di rischi elevati di una violazione delle regole, ma, alla luce del ramoscello di ulivo offerto dal governo, rinvierebbe una decisione finale alla primavera del 2019, quando saranno disponibili i dati dei conti pubblici del 2018. E a quel punto mancherebbero poco più di due mesi alle elezioni europee. Per cui…
La seconda incognita, quella più sostanziale, riguarda la persistente fragilità dei conti pubblici italiani. Ne parlavo anche nel mio articolo del 31 luglio: con un deficit dell’ordine del 2 per cento, il rapporto tra debito pubblico e Pil resterà vicino ai livelli attuali del 131 per cento del Pil. E con un debito che non scende al primo scossone si va sotto. Le crisi, quelle in cui lo spread arriva a 500-600 punti base e oltre, tipicamente arrivano quando il debito pubblico, da un livello già alto, comincia a crescere e un qualunque scossone all’economia italiana lo farebbe crescere. Di quale «scossone» parlo? Al di là di sviluppi politici interni, mi preoccupa, come ho più volte sostenuto, un rallentamento economico nel mondo e nell’Europa che ci mandi in recessione, anche una piccola recessione. Negli ultimi mesi la crescita italiana è stata nulla (anzi il terzo trimestre il Pil è sceso leggermente). Non ci vuol molto per andare in recessione. Scrivevo a fine luglio: «Dobbiamo solo sperare di essere fortunati e che l’economia europea continui a crescere nei prossimi anni. Se questo non avverrà, saranno guai…». Mi spiace ripetermi, ma talvolta repetita iuvant.