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 2018  dicembre 14 Venerdì calendario

Maduro vuole far fuori gli indios per l’oro

SAN PAOLO (BRASILE) Come in una storia da Far West. Ma lo scenario stavolta è il Venezuela e ad asserragliarsi nella foresta un gruppo di coraggiosi indios che hanno preso in ostaggio tre uomini del regime di Maduro che volevano ucciderli per impossessarsi dell’oro di cui sono ricche le loro terre. Tanto che c’è chi dice che se la Bank of England avesse accettato di restituire alla dittatura di Nicolás Maduro i lingotti d’oro che conserva nei suoi forzieri valutati 550 milioni dollari sinora non l’ha fatto adducendo rischi di «riciclaggio» – il 21enne indio Charlie Peñaloza Rivas oggi sarebbe ancora vivo e questa storia non sarebbe mai cominciata. In realtà il «no» da Londra è arrivato quando Charlie era già stato ucciso nella riserva in cui viveva, ovvero il Parco Nazionale Canaima nel sud del Venezuela, non lontano dalla frontiera brasiliana, ma la sostanza della storia non cambia. Suo fratello Carlos, inoltre, con altri due indigeni della sua stessa etnia, i Pemón, rimanevano gravemente feriti per mano di una dozzina di membri della direzione generale del militare controspionaggio, la temibile Dgcim di Maduro. Accompagnati nel raid criminale da altri funzionari statali, compresi un paio almeno della Corpoelec, la compagnia statale che dovrebbe occuparsi di elettricità invece di dar la caccia agli indios.
I fatti sono degni di una serie Netflix come Narcos e rischiano di mettere adesso per l’ennesima volta Maduro&co in guai seri di fronte alla comunità internazionale, a cominciare dagli Stati Uniti di Donald Trump. Tutto ha inizio il 7 dicembre, quando a Santa Elena de Uairén, cittadina di 30mila abitanti, capitale della regione Sabana Grande, atterrano a stretto giro di posta 5 aerei con a bordo un folto gruppo di «turisti», o almeno così si presentano. In realtà sono venuti per uccidere gli indios. Sono tutti uomini, e si giustificano dicendo di voler fare una serie di escursioni al Salto del Ángel, la cascata più alta del mondo, la cartolina del Paese in un parco che è patrimonio dell’umanità Unesco, in grado ai tempi d’oro del Venezuela di attirare ogni anno migliaia di turisti. Da allora qui le cose sono cambiate, con una crisi che da economica si è trasformata in umanitaria anche per gli indios Pemón, che hanno visto crollare il turismo, loro principale fonte di reddito. E allora chi di loro può fugge dal «paradiso» del socialismo del 21esimo secolo di Chávez. Basti pensare che oggi a Manaus, nel cuore dell’Amazzonia brasiliana, vivono 4mila indios venezuelani per strada. Chi rimane, invece, per sopravvivere è costretto alla minerazione illegale, un lavoro faticosissimo e poco remunerato perché gestito da mafie locali legate al governo. «È una questione di sopravvivenza», dicono tutti. 
Il problema è che con un’inflazione che ha superato il 1.300.000% e nuovi creditori come Cina e Russia, assai meno pazienti degli Usa (che continuano a comperare 900mila barili di greggio venezuelano al giorno pagando cash pur di non contrariare la lobby texana delle raffinerie), il presidente Nicolás Maduro non sa più come fare cassa. Per questo il 24 febbraio 2016 rispolvera un’idea di Chávez e crea l’Arco Mineiro dell’Orinoco. In tutto si tratta di un’area di 111,843 kmq di estensione, oltre un terzo dell’Italia, e ne concede lo sfruttamento alla Società militare limitata delle industrie minerarie, petrolio e gas (Caminpeg), una compagnia statale, e a poche e oscure aziende private. Nel 2017, poi, il regime di Caracas si trasforma ufficialmente in dittatura sul modello cubano, prima togliendo ogni potere al parlamento, sostituito con un’illegittima assemblea costituente, poi a maggio di quest’anno con una rielezione presidenziale farsa di Maduro, che dal prossimo 10 gennaio inizierà un altro mandato di sei anni. A inizio dicembre, dopo avere incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, al quale garantisce concessioni minerarie in cambio di un salvacondotto se mai per lui le cose dovessero mettersi male, il delfino di Chávez ordina ai suoi generali (quasi tutti accusati di narcotraffico dalla Dea, l’agenzia statunitense antidroga) di sloggiare gli indios dalle zone aurifere del Parco Nazionale Canaima. Ufficialmente per fermare il disastro ambientale, in realtà per estrarre direttamente con la Caminpeg o per conto di società private legate a mafie transnazionali l’oro, ma anche il coltan e i diamanti, che abbondano sotto le terre Pemón.
Secondo le testimonianze raccolte da un paio di coraggiosi giornalisti che al momento in cui andiamo in stampa sono già stati minacciati dalla dittatura di Maduro, l’ordine del raid sarebbe stato dato dal ministro della Difesa, Vladimir Padrino López, appoggiato dal titolare dell’Energia, generale maggiore Luis Motta Domínguez. Nello specifico a guidare l’attacco contro la comunità indigena Pemón sarebbe stato Alexander Granko Arteaga, lo stesso che il 15 gennaio comandò un altro massacrò, quello del Junquito, in cui fu ucciso tra gli altri il poliziotto ribelle Oscar Pérez.
Non una parola da parte di Caracas sul fatto che i killer del Dgcim sarebbero atterrati nella riserva Pemón su un Cessna targato YV-2030, come rivelato dal fotoreporter locale German Dam, subito minacciato da sgherri del regime. Per la cronaca si tratta dello stesso aereo usato dai nipoti di Maduro quando furono arrestati ad Haiti dalla Dea per narcotraffico mentre cercavano di introdurre 800 kg di cocaina purissima negli Usa. E bocca chiusa da parte di Maduro anche sul LearJet25 YV3087, un altro degli aerei usati nell’operativo militare contro gli indios, che quando aveva la targa N181PA finì anch’esso nel mirino della antinarcotici statunitense.