Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2018
Le aperture della Cina al passo
A quarant’anni dalle riforme del pragmatico Deng Xiaoping – «Facciamole, disse ai compagni titubanti, se non funzionano, le cambieremo!» – l’economia cinese deve affrontare sfide formidabili per diventare una potenza globalizzata.
Pechino oggi cresce “solo” del 6%, deve convincere gli investitori di essere (ancora) un buon asset, deve incrementare la trasparenza dei mercati e imbrigliare le diverse componenti del debito galoppante. Con più ampi mercati di sbocco dell’export, la Cina punta a sviluppare i consumi interni e migliorare la qualità della filiera produttiva. Non a caso, si è dichiarata disponibile a cambiare il tiro su Made in China 2025.
Convertibilità del renminbi
In cima alla lista del 13° Piano quinquennale, la convertibilità del renminbi resta un miraggio. La data del 2020, cioè dopodomani, è impraticabile con mercati internazionali in subbuglio. Yi Gang, il Governatore della Banca centrale che ha ereditato la politica monetaria prudente di Zhou Xiaochuan, ogni giorno manovra le leve dei tassi di cambio, segno che la liberalizzazione resta lontana. Dall’estate di tre anni fa, quando la Banca centrale ordinò la prima “rivoluzionaria” svalutazione, lo yuan è in calo costante, il che non aiuta a rintuzzare la minaccia dei dazi sventolata dal presidente Usa Donald Trump. Lo spauracchio dei rischi finanziari sistemici ricorre nei documenti ufficiali del Governo cinese, mentre la convertibilità è finita nel cassetto. Un paradosso vero e proprio nella terra leader dei pagamenti elettronici: in Cina la moneta fisica rischia di sparire grazie alla potenza delle piattaforme elettroniche.
Renminbi e Diritti di prelievo
A dispetto della non convertibilità, la Cina ha perseguito con puntiglio – comunque e dovunque – l’internazionalizzazione della moneta: creazione di hub per il clearing (Londra, in primis ), l’acquisto di renminbi da parte dei Governi. Dalla Malesia alla Nigeria, più di recente anche l’Italia, i renminbi sono finiti nel portafoglio delle Banche centrali di diverse nazioni, e anche la strategia Belt&Road funziona da grimaldello per promuovere la moneta cinese. Il più importante hub, intanto, quello londinese, dovrà gestire gli effetti della Brexit. Infine, l’inserimento nel paniere delle valute dei Diritti speciali di prelievo (DSP) del Fondo monetario, conquistato grazie alle pressioni del Governatore Zhou sul direttore del Fondo, Christine Lagarde, si è rivelata una mossa politica, non certo un’opportunità di globalizzazione valutaria, rimasta sulla carta.
Investimenti nei listini
Il tallone di Achille dei mercati finanziari cinesi resta la trascurabile presenza degli stranieri, presenti con asset del 2 per cento. Il sistema degli investimenti nelle borse, con Shanghai “sponsorizzata” dal Governo rispetto a Shenzhen e, ovviamente, a Hong Kong, pur collegate entrambe da una stock connection, si regge sul sistema dei QFII (Qualified foreign institutional investors), le quote autorizzate per Paese di investimenti stranieri sui mercati cinesi. L’effetto attrazione è debole, molte quote restano non utilizzate, il mercato delle blue chips non performa come dovrebbe a causa delle inefficienze e della scarsa trasparenza delle informazioni. La borsa di Shanghai quest’anno ha incassato pessime performance, mentre i bassi tassi di interesse al 4% non frenano un debito corporate schizzato al 165 per cento. Così, l’inserimento delle blue chips cinesi nell’indice MSCI dei mercati emergenti, anch’esso fortemente perseguito da Pechino, in mancanza di aziende appetibili sulle quali investire rischia l’autogol.
Le 11 Free trade zones
Il clou del discorso all’Expo di Shanghai, in novembre, del presidente Xi Jinping, è stato tutto per le 11 Free trade zones: «Le potenzieremo, inclusa Shanghai, quella nata per prima». Nei fatti, si sono rivelate un problema da gestire: dovrebbero funzionare da laboratorio di globalizzazione e di apertura all’estero, ma hanno creato molti grattacapi, nonostante le novità introdotte proprio nelle 11 Free trade zones. Ad esempio,la Negative list (vale a dire, tutto ciò che non è vietato, è permesso) e il fatto che lì è più semplice attivare l’eliminazione del tetto del 50% al capitale delle joint ventures. Finora il colosso tedesco Bmw è l’unico ad averlo superato, il tetto.
Il Catalogo degli investimenti
Pechino farebbe meglio ad archiviare il Catalogo degli investimenti, applicando il principio della Negative list – introdotto soltanto nelle 11 Free trade zones autorizzate – su tutto il terriotorio. A fine luglio 2017 è entrato, invece, in vigore il nuovo Catalogo che stabilisce chi può investire e chi no e chi può farlo, ma solo a certe condizioni. Non esistono al mondo Paesi importanti come la Cina dotati di un simile strumento, obsoleto, tipico di un’economia dirigista. Il coraggio dimostrato da Deng Xiaoping quarant’anni fa insegna: far cadere le barriere porta enormi vantaggi.