13 dicembre 2018
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Biografia di Vinicio Capossela
Vinicio Capossela, nato a Hannover (Germania) il 14 dicembre 1965 (53 anni). Cantautore. Scrittore. Tra i riconoscimenti ricevuti, quattro Targhe Tenco e il Premio Tenco alla carriera. «Cantore, poeta, sciamano» (Goffredo Fofi). «Canta come Tom Waits, scrive come Ovidio» (The Sunday Times). «A volte ho bevuto, a volte ho letto, a volte ho scritto e composto. Non c’è mai stato un ordine o una priorità definitiva. L’importante è non ripetersi e non dipendere troppo dalle proprie scelte». «Ho imparato a comprendere l’armonia delle mie contraddizioni. Io l’ho battezzato, il demone che ho dentro» • Famiglia di emigranti irpini. «"Calitri è sempre stato un paese di contadini. […] È una terra che non ti trattiene ma non ti lascia: mio padre è partito a 18 anni e non s’è mai sentito a casa come qui. […] Pare che i Capossela, pastai di professione, siano arrivati a Calitri da Caposele, dove nasce il Sele che toglie la sete alla Puglia. Mia madre è di Andretta, un paese più piccolo e arroccato. Senza scomodare Omero e l’Odissea, sono cresciuto tra Hannover e Scandiano ascoltando madri, zie, nonne evocare l’Alta Irpinia, i rituali della civiltà contadina, le canzoni e i soprannomi, le masciare e i briganti» (a Gianni Mura) • «A volerla chiamare Vinicio fu […] suo padre. “Essendo il primogenito maschio, per una tradizione immutabile, mi sarei dovuto chiamare Vincenzo come mio nonno. Per mio padre Vito alterare il corso delle cose rappresentò un coraggioso atto di insubordinazione. Mio nonno non la prese bene: ‘Che cazzo di nome gli hai dato, non lo trovi neanche nel calendario di Cristo’”. E Vinicio fu. “Come il console Marco Vinicio, il personaggio interpretato da Robert Taylor in Quo vadis, e come il fisarmonicista dei coloratissimi dischi della Durium che mio padre, operaio, comprava come unica evasione dalle strettissime economie familiari e come sola concessione – insieme alle Nazionali Esportazione – al fatuo, all’inutile e all’inessenziale”» (Malcom Pagani). «“I miei […] emigrarono in Germania. Sono nato casualmente a Hannover. Ma ho passato l’infanzia e la giovinezza in Emilia. Terra unica: di canzoni, balli e motociclette. […] Vivevamo in una contrada di campagna. Dove ancora era presente il ricordo dei tedeschi invasori. C’era la casa del popolo. La balera, le feste comandate. C’erano ancora le piccole e autentiche comunità, con un senso di profonda appartenenza. Il sacro e il profano convivevano e la musica faceva da collante”. Quando hai iniziato a interessartene? “Mi ha sempre attratto, fin da bambino. Ricordo la prima volta che assistetti alla festa per uno sposalizio. Ero sedotto dalla gioia della gente che ballava; dal canto di alcuni e da un suonatore di fisarmonica, particolarmente bravo. Avevo otto anni. La nipote del prete mi fornì i primi rudimenti musicali. Poi andai a lezione da un maestro di musica da ballo e imparai solfeggio”» (Antonio Gnoli). «Vengo da una famiglia che è cresciuta con una grande consapevolezza del sacrificio e della paura di non farcela. Tuttavia i miei genitori sono sempre stati ostinati, tenaci e incrollabili. E, soprattutto, amavano raccontare. Dopo i turni nella fabbrica di ceramica in cui lavoravano li sentivo chiacchierare per ore, e i personaggi della loro vita quotidiana si ingigantivano nella mia fantasia. Lo stesso accadeva con le mie zie. Quando tornavo d’estate in Irpinia, le donne mi coccolavano con storie fantastiche che prendevano spunto da avvenimenti molto semplici» (a Vincenzo Petraglia). «Ho scelto chimica alle superiori e poi ho fatto un po’ Economia all’Università di Parma. Tutte materie che ancora non so perché ho studiato. La mia intera esperienza scolastica è un’esperienza da sonnambulo. Non ero totalmente consapevole di quel che accadeva quando ero in aula, e ancora non so come ho fatto a superare certi esami. Ho sempre pensato a qualcos’altro. L’insegnamento principale della scuola è stato questo: pensare a qualcos’altro». Nel frattempo aveva continuato a coltivare la passione per la musica. «A 11 anni impara a suonare l’organo, quindi frequenta per breve tempo il Conservatorio ed entra in un gruppo hard rock locale (gli Hurricane) come tastierista e armonicista. […] Terminate le superiori (è perito chimico), si iscrive all’università e forma, con la sua ragazza dell’epoca come cantante e lui al piano, i Blue Valentine, duo che si esibisce dal 1986 al 1988 con un repertorio di standard internazionali» (Alessia Pistolini). «A me piacevano Neil Young e Bruce Springsteen, ma soprattutto Tom Waits. Avevo tredici anni quando ascoltai per la prima volta l’album Foreign Affairs e capii l’importanza del solista che sostituisce la chitarra con il pianoforte. Se si guarda al lavoro di Waits, si vede che non costruisce archetipi – come fa per esempio Dylan –, non esprime una vera originalità; ma ha la forza di rielaborare tutta la musica popolare americana, marcandola con dei forti echi letterari. Ci ritrovavo Kerouac e Bukowski, che proprio alla fine degli anni Settanta avevo cominciato a leggere. Capivo la loro paura di vivere, mascherata di gioia lungo strade che non portavano più a niente» (ad Antonio Gnoli). A Tom Waits è legato anche un altro avvenimento importante per Capossela, del 1986: «Quell’anno a Sanremo fu la prima volta che Waits cantò in Italia. Fu un evento che cambiò la mia vita. Avevo sentito la notizia alla radio. Con la mia ragazza dell’epoca avevamo formato un duo, i Blue Valentine. […] Ricordo che il giorno del concerto di Tom Waits a Sanremo io avrei dovuto fare un esame importante dal quale dipendeva il mio futuro universitario. Non ebbi dubbi. E la mia vita cambiò. Dopo il concerto ci avvicinammo a Roberto Benigni. Fu intenerito dalla nostra passione, dal nostro affanno, e ci portò da Waits. Ricordo che mi salutò come un fratello maggiore» (a Laura Putti). «Prosegue poi da solo, suonando sulla riviera romagnola (con una parentesi newyorkese) e iniziando anche a cantare sue canzoni. Intanto frequenta il Club Tenco, dove conosce Francesco Guccini, il quale consegna un suo demo al proprio produttore, Renzo Fantini (lo stesso anche di Conte)» (Pistolini). Era «“una musicassetta incisa al Piazza di Bellaria. Mi registrai da solo, con il rumore di fondo dell’aspirapolvere, all’una di notte o giù di lì, mentre i clienti aspettavano che le cameriere, le bellissime cameriere, finissero il turno per chiedere un numero di telefono, un appuntamento o solo la scusa per tornare il giorno dopo. ‘Che strana razza è poi il cliente: / c’è quello bello e intelligente, / c’è il casinaro e l’invadente…’”. Il suo primo album […] si intitolava All’una e trentacinque circa. “Non a caso. Nel primo disco c’erano – romanzati – i personaggi che avevo visto con i miei occhi”» (Pagani). «Ed è così che nel 1990 Capossela incide All’una e trentacinque circa, Targa Tenco come miglior opera prima dell’anno. Il disco offre facili accostamenti ad altri musicisti, in particolare Waits e Conte, ma contiene già molti ingredienti delle opere successive: la dimensione notturna, l’autobiografismo, la strada, i bar, gli amori di passaggio o perduti e, sotto il profilo musicale, la predilezione per i lenti con pianoforte e i ritmi ballabili quali il tango, il blues, lo swing. L’anno successivo esce Modì, in cui le derivazioni sono ancora ben identificabili. L’impronta personale, però, comincia a farsi decisa. […] È il disco di brani splendidi come Ultimo Amore, Modì, Pasionaria, Solo per me. […] Camera a Sud del 1994 (primo lavoro pubblicato anche all’estero, in Francia) segna un passaggio stilistico. Ai ritmi segnatamente sudamericani (Guiro, Camera a Sud, Che coss’è l’amor) si affiancano ora cenni balcanici (Zampanò). […] Che coss’è l’amor viene inserita nel film Tre uomini e una gamba con Aldo, Giovanni e Giacomo e contribuisce sensibilmente ad aumentare la notorietà di Capossela, insieme a una sorta di passaparola tra gli ascoltatori più attenti e alla nomea di artista sregolato. […] Nel 1997 esce un disco dalla notevole levatura: Il ballo di S. Vito. Sebbene riconduca sempre più alle sonorità del Waits di Bone Machine e Rain Dogs (anche per la comune presenza del chitarrista Marc Ribot), l’apporto personale è ormai evidente. I ritmi, tra il Sud d’Italia, l’America e l’isola di Capoverde, si riempiono di arrangiamenti (curati da Evan Lurie) pieni e trascinanti. […] Nel 2000 […] esce Canzoni a manovella. È il momento del superamento di sé, nel significato più vasto dell’espressione: il disco abbandona quasi del tutto l’autobiografismo. […] Lo spostamento delle sonorità verso l’area balcanica […] permea l’intero album. Sarà un buon successo di vendite, con un bel video d’autore (Ago Panini) del brano Marajà e la Targa Tenco 2001 per il miglior disco a pari merito con Francesco De Gregori. […] Ovunque proteggi […] (2006), frutto di una ricerca di sonorità e atmosfere proprie per ciascun brano, […] è ispirato da un nuovo sapore, quello per il mondo archetipico della religione, della storia e della mitologia. Capossela sembra portare qui a compimento un percorso poetico che dal marcato autobiografismo iniziale allarga sempre più lo sguardo fino a occuparsi dei misteri profondi che accomunano l’umanità intera. L’album è accolto in termini entusiastici dalla critica, nonostante si presenti come un’opera fortemente intellettualizzata e che ancora una volta deve molto a Waits (in particolare quello di Mule Variations). Ma Capossela è ormai una stella di prima grandezza» (Pistolini). Premiato con la terza Targa Tenco, «Ovunque proteggi è un disco “magico” in tutti i sensi e il capolavoro assoluto di Capossela, che da lì ha intrapreso una strada di ricerca unica, tra Pasolini e La terra del rimorso di De Martino, tra Il ramo d’oro di Frazer e il Furore di Steinbeck, Strade blu di Least Heat-Moon e i Tarantolati di Tricarico. Western calitrano, appunto» (Luca Valtorta). «Capossela torna in America nel 2008 con l’album Da solo – forse e ingiustamente uno dei meno apprezzati –, che […] regala chicche come Il paradiso dei calzini, Il gigante e il mago e Sante Nicola. Nel 2011, […] con il doppio album Marinai, profeti e balene, […] musica episodi marinareschi di Melville e i più celebri capitoli dell’Odissea, dall’incontro con Polifemo alla prigionia di Ulisse sull’isola di Ogigia» (Daniele Sidonio). Acclamato da buona parte della critica, Marinai, profeti e balene guadagnò a Capossela la quarta Targa Tenco, seguita pochi giorni dopo dal Premio Fabrizio De André alla carriera. Il 2016 vide l’uscita di un doppio album lungamente meditato, Canzoni della Cupa, «un disco che nasce dall’incontro del musicista […] con “il grande patrimonio orale di storie, proverbi, sonetti, modi di dire del paese di Calitri e dintorni”. Ossia dall’amore per l’Alta Irpinia, già terra di suo padre, linfa vitale per questo lavoro diviso in due parti, Polvere e Ombra, la prima registrata nel 2003, la seconda tra il 2014 e il 2015. “La mia, però, non è un’operazione di riesumazione, non ho fatto un lavoro di recupero museale di una tradizione”, precisa Capossela. “Volevo realizzare un album che avesse una qualche attinenza con il patrimonio folclorico – non folcloristico – di storie e di miti che non parlano il linguaggio della contemporaneità perché legati un’ancestralità e a una ruralità che vanno oltre la specificità storica”. […] “La Cupa è un luogo oscuro. In altri miei dischi l’oscurità era più esistenziale. Qui c’è una mancanza di luce legata alla terra, alle sue creature, alle sue leggende”» (Raffaella Oliva). «Un disco oceanico, 29 canzoni suddivise nel disco chiamato Polvere (“che parla di terra, lavoro, sole, vita”) e in quello chiamato Ombra (“notturno, di racconti, leggende, mistero”). Alcune sono semplicemente canti popolari e tradizionali riarrangiati, altre sono invenzioni di Vinicio “alla maniera di”, prendendo spunto da qualcosa di orecchiato in giro, una lettura o un incontro. Su tutti, l’incontro con Matteo Salvatore, forse il più grande cantautore folk […] che l’Italia abbia mai avuto» (Luigi Bolognini). «Un disco, fatto più unico che raro, capace anche di travalicare i confini, prendendosi quattro stelle dalla bibbia inglese della musica, il mensile Mojo» (Valtorta). «Il prossimo disco parlerà di bestiari medievali. Penso che lo spazio dell’animale sia scomparso dal nostro immaginario. È ridotto a cibo, addomesticato, tenuto sotto le cure della pubblicità. Per me invece è una figura totemica. Un modo per ridare senso al nostro mondo. Quando ancora le Colonne d’Ercole avevano un senso» • Personaggio poliedrico, si è cimentato anche nella scrittura, iniziando nel 2004 con Non si muore tutte le mattine (Feltrinelli). Nel 2015 con Il paese dei coppoloni (Feltrinelli) è stato candidato al Premio Strega (presentato da Eva Cantarella e Gad Lerner), senza tuttavia essere incluso nella cinquina dei finalisti. «Sono storie raccontate dal mio punto di vista, quello dei coppoloni, la gente che si doveva togliere il cappello di fronte ai signori. La carne da macello pronta a emigrare per sopravvivere» • Dal 2013, ogni anno a fine agosto, organizza a Calitri lo Sponz Fest, da lui stesso ideato ispirandosi agli «sponsali» contadini (da cui il nome). «Gli sposalizi nella cultura contadina sono fondamentali, e un tempo avvenivano d’inverno, in gennaio, febbraio, perché c’erano pochi lavori da fare. Poi invece, con l’emigrazione, i matrimoni si sono cominciati a fare ad agosto, perché era il periodo in cui chi era fuori tornava al paese. La mia prima esperienza della musica, del ballo, è stata quella». «Lo Sponz Fest non è un festival: è un modo per ritrovarsi, fare comunità, e non può prescindere dal luogo, l’Alta Irpinia. I palchi non ci sono nemmeno: i veri protagonisti sono i luoghi» • «Vive, quando non è in tour, […] non distante dalla Stazione Centrale di Milano: uno studio di registrazione con annessa cucina e, poco distante, la casa. “In un venerdì 17 di alcuni anni fa, scendendo da un taxi fui lievemente investito da un’altra macchina, rompendomi la caviglia. Zoppicai, per pochi metri, fino all’altezza di un portone. Il cartello in alto portava scritto ‘Affittasi’, e fu così che finii a vivere qui, nella mescolanza di etnie e di storie, con accanto quel monumento egizio che è la stazione”» (Gnoli). «Lì canta sotto Natale per i senzatetto, lì ha fatto un concertino sottozero al binario 21, quando gli ultimi ferrovieri dei treni di notte (soppressi) resistevano in cima a una gru. "Per me i treni fanno parte del bene comune, come l’acqua. Non si può ragionare solo in termini economici. Il treno, in Irpinia, è separazione dalla terra, dagli affetti, è destino, è emigrazione, è speranza, è anche ritorno, è vedere cosa rimane e cosa s’è perso"» (Mura) • Breve esperienza matrimoniale in gioventù con una modella americana. «Il matrimonio è quello che inizia dopo, quando si chiudono i battenti e si rimane soli nella carne, diceva Bergman: una questione impegnativa tra due persone. Che può andare male». «L’amore è la nostra piccola ambizione di eternità, che però è una dimensione che appartiene a Dio, non agli esseri umani. Probabilmente l’amore è possibile solo a patto di concedersi libertà, di essere disposti a perdere» (a Valentina Colosimo) • «Finora ho sempre preferito essere figlio piuttosto che padre. E forse è così che funziona: c’è chi nasce per essere padre e chi per essere figlio» • «Non ho la fede. San Paolo sulla via di Damasco ha avuto l’abbaglio decisivo, e dopo essere caduto da cavallo si è rialzato. A me è rimasto il piede impigliato e sono ancora a terra. Però mi ha sempre affascinato il linguaggio biblico, perché lo trovo molto efficace per parlare della condizione umana» (ad Antonio Sanfrancesco) • «Beve molto? “Il mio stesso nome, Vinicio, mi fa amico del vino. Mio nonno portava quello della sua vigna ai ritrovi come fosse latte. È un accesso a noi stessi e, come il sesso, ai lati più profondi della nostra natura. Conta saperlo dominare. […] Certo, quando si prende il mare, bisogna avere un’imbarcazione che sappia reggere”. Lei ce l’ha? “Ho rischiato la zattera malconcia, ma oggi sì”. C’è chi sostiene che senza alcol lei e De André avreste fatto verosimilmente un altro mestiere. “Tanti ubriachi cronici non hanno tirato giù una riga. Saper scrivere conforta. Dovremmo avere più cura del tempo della festa. […] Il gioco è rottura sacra del causa-effetto, è liberatorio, rimette in contatto con Dio. Se ci si stona, non per forza ci si abbrutisce”» (Lavinia Farnese) • Grande passione per la letteratura. «Ho provato a ricavare canzoni da diversi libri. Per esempio Lord Jim di Conrad, o La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, o Moby Dick di Melville, una specie di grande musical pieno di inni e di canzoni marinaresche. Anche dall’Odissea, che è anche una testimonianza della potenza del canto: Ulisse ottiene il ritorno perché sa raccontare la sua storia con l’abilità di un aedo» (a Stefano Brusadelli) • Indossa sempre un cappello («Lo tolgo solo per dormire»), generalmente di foggia bizzarra. «I cappelli sono come i cani: ci si passa del tempo insieme. A volte spariscono, e capisci che la tua stagione con quel cappello è finita». «Ligabue, il pittore, si faceva delle grosse ferite in testa per far uscire i cattivi pensieri. Io invece ai miei cattivi pensieri ci sono affezionato, e li tengo lì, trattenuti dal cappello» • «Sono cresciuto in Emilia e avevo dei coetanei che facevano un sacco di cose avventurose, mentre io ero piuttosto contenuto perché non avevo mezzi, non potevo muovermi né viaggiare, per cui mi sono sempre abituato a immaginare le cose, più che a viverle e a farne esperienza. Poi, però, molti di quei coetanei avventurosi già a 25 anni avevano messo su famiglia, erano canuti eccetera, mentre io il germe dell’avventura l’ho coltivato nel tempo» • «Barba lunga da viandante e occhi bizantini» (Gnoli). «Beone vagabondo e artisticamente fedifrago, innamorato della musica balcanica e di Brecht, di Tom Waits e di Fellini, della patafisica e di John Fante, di Paolo Conte e del circo. […] La sua è una vitalità febbrile: quella che si esprime nella sua musica, negli show dal vivo» (Federico Gironi). «Assistere a un suo show è un po’ come fare un salto nel mondo surreale delle favole che da bambini popolavano e accendevano la nostra fantasia. Vinicio Capossela è un cantastorie di razza, un po’ come quelli che un tempo giravano a bordo di un carrozzone colorato, fermandosi nelle piazze a incantare il pubblico» (Petraglia). «Le canzoni si completano in due. Uno canta, l’altro ascolta. Lo spettacolo è un momento di completamento» • «La costante di Capossela è sempre stata l’attitudine pantagruelica, il dover tutto conoscere e centrifugare, poiché niente gli somiglierà se non l’avrà ruminato e reinventato nel ribollire dei suoi sensi» (Vincenzo Mollica). «Vinicio è amante del racconto meraviglioso, ammagato e al tempo stesso mago, affabulatore, rabdomante che intercetta ovunque la poesia, insegue le canzoni nella geografia e nella storia, si bagna di sacro e profano, fa alchimia di parole e note. È un instancabile viaggiatore, pronto a cavalcare gli imprevisti e a seguire le tangenti» (Simona Orlando). «In realtà il suo personaggio […] è sempre stato una costruzione narrativa, una sorta di auto-fiction. Credere a una storia falsa fino a farla diventare vera. […] Insomma, un indossatore di stili e suggestioni che alla lunga ha creato un ircocervo metà cantautore e metà teatrante, pianobar partito per l’Oriente che ha bisogno di continui input per non soccombere. Questa vocazione all’imitazione – questo essere uno Zelig che di originale ha il trasformismo e non sa più chi è – l’ha reso fruibile, riconoscibile. […] Di belle cose ne ha fatte tante, ad esempio il notturno provinciale di Tornando a casa, l’abisso de Le case, la preghiera tossica di Ovunque proteggi, la straordinaria cover di Bolle di sapone di Endrigo con Pascal Comelade, lo sketch a volo d’uccello su Milano di Pioggia di novembre (forse il suo capolavoro) e altro ancora, contando anche lo Sponz Festival, che rianima da qualche tempo i paesaggi protagonisti del Paese dei coppoloni. E dunque cosa c’è di vero in Capossela? Proprio il falso. Crederci per davvero, a quella finzione» (Marco Rossari) • «Noi nella cultura mediterranea non abbiamo i grandi spazi, ma la grande profondità sì. L’arcaico convive in noi, nelle radici delle nostre parole, è un pozzo. Si scava un po’ di terriccio e c’è la civiltà contadina; scavi ancora un po’, ed è la nostra infanzia del mondo. Scavi, e trovi le ossa». «Non dividerei l’Italia tra Nord e Sud, ma tra realtà urbane e zone dell’interno, cioè lo scheletro appenninico, spopolato, colpito dai terremoti. Dovremmo accudire queste zone, dove sono conservati suoni e voci vitali. Un Paese dovrebbe curare il proprio scheletro, altrimenti si ammala di osteoporosi e si sbriciola» (a Vittorio Zincone) • «Ho sempre cercato di ottenere il massimo risultato con il massimo sforzo». «Quando voglio scrivere qualcosa di nuovo mi metto in viaggio, proprio come facevano una volta i pellegrini. Partire è il primo passo per imbattersi in un’occasione e in un incontro che possono far nascere un testo o una sonorità speciali. Sono le persone e i luoghi inaspettati che mi aiutano a crescere e creare. La definirei una specie di reazione a catena». «Ripensa mai agli esordi difficili? Al Vienna di Modena un punk uscì dalla sala sputando per terra e gridandoci “Voi siete la morte”, ma, come diceva quel saggio, le début c’est le début. All’inizio vale tutto, ma proprio tutto. E non te la puoi prendere, né offenderti. Devi andare avanti, proprio come insegna Amarcord. Quando vecchio e giovane si ritrovano a far mattoni, il ragazzo si lamenta e l’altro lo zittisce: “Ma te stai buono e lavora, perché, lavorando, si lavora”. Per me è così: vado avanti lavorando» (Pagani). «Come vorrebbe fosse il suo epitaffio? “Sono morto tante volte, ma mai così”» (Farnese).