Corriere della Sera, 13 dicembre 2018
Perché il mondo non riesce a fare a meno del carbone
«La senti la puzza qua fuori, lo vedi il colore del cielo?». Aleksy è uno dei pochi che si ferma, sotto la neve, all’uscita dall’anonimo edificio, in perfetto stile sovietico, accanto alle bandiere ormai stinte di Solidarnosc. «Qui non si respira, ma se chiudono chi ci dà un altro lavoro. Quindi, va bene così…», dice prima di scappar via, come i suoi compagni di lavoro. I minatori di Wujek.
È sotto queste due ciminiere che nel 1981 si è consumato uno dei momenti più drammatici dello scontro fra il sindacato di Walesa e il regime di Jaruzelski. Poco dopo l’entrata in vigore della legge marziale, i miliziani aprirono il fuoco sui minatori e ne uccisero nove. Il dittatore la chiamava «pacificazione».
Oggi le due ciminiere sputano ancora fumo e puzza, a una manciata di chilometri dal centro di Katowice e dal palazzone dove centinaia di ministri, sherpa ed esperti discutono, in un’estenuante trattativa targata Onu, di clima e futuro del pianeta. Ironia della geopolitica, il mondo si è ritrovato proprio qui, nella «capitale europea del carbone», a decidere i destini dell’accordo di Parigi del 2015. E il carbone, motore dell’era industriale, è diventato «l’elefante nella cristalleria dei negoziati sul clima», come dice il Wwf. Il fallimento è dietro l’angolo. E sul banco degli imputati – assieme a Trump e alla Russia – finisce anche la Polonia, che ospita il vertice e ancora ottiene l’80% della sua energia dalle centrali a carbone. Il presidente Andrzej Duda lo ha ribadito: «Non uccideremo le nostre miniere».
Il carbone resta la fonte di energia più utilizzata al mondo per produrre elettricità. Nel 2017, secondo l’Iea, produzione e consumo a livello globale sono tornati ad aumentare dopo due anni di declino. Perché è così difficile abbandonarlo? «Perché ci sono milioni di tonnellate di carbone sotto terra. Potenti compagnie, sostenute da governi potenti, spesso sotto forma di sussidi statali, si affrettano ad espandere i loro mercati prima che sia troppo tardi», ha risposto il New York Times con una recente inchiesta. Il ministro dell’ambiente italiano Costa intervenuto alla COP ha detto che l’Italia «intende arrivare alla piena eliminazione dell’uso del carbone entro il 2025». «In Europa si stanno facendo grandi sforzi per abbandonarlo. L’Italia è un buon esempio, la Gran Bretagna se ne è ormai liberata quasi completamente – spiega Luca Bergamaschi, esperto del think tank europeo E3G e dell’Istituto Affari Internazionali —. Nonostante i proclami di Trump, perfino in Usa la produzione di elettricità dal carbone ha raggiunto i minimi storici». Secondo l’Onu, per contenere il riscaldamento globale entro il limite di +1,5°, entro il 2050 le rinnovabili dovranno fornire la maggior parte e il carbone dovrà crollare dall’attuale 30% a meno del 2%. Ma bisogna fare i conti con l’Asia. La Cina, da sola, consuma metà del carbone mondiale e le sue imprese stanno costruendo centrali in 17 Paesi, soprattutto nel Sudest asiatico, l’ultima frontiera del carbone.
In Europa, invece, si fanno già i conti della conversione, rischi sociali connessi. Lo ha ricordato ieri a Katowice Svenja Schulze, ministro dell’Ambiente della Germania, che ha chiesto un aumento dei fondi dell’Ue a supporto di una «giusta transizione» per evitare che «la gente indossi i gilet gialli». Trentatré delle città più inquinate d’Europa sono in Polonia. I vecchi non si lamentano. «Prima era molto peggio – assicura Andrej, che in miniera lavora da oltre trent’anni —. Nell’era sovietica eravamo tutti ammalati». «Il carbone prodotto qui in Alta Slesia ha avuto un’importanza strategica sia per la Germania che per la Polonia. Nessuno, fino a 40anni fa, si era preoccupato dell’ambiente», spiega lo storico Karol Chwastek. Anche suo padre era minatore, come quasi tutti i padri dei giovani di Katowice. Lui, invece, si è laureato e ora lavora al Museo di Wujek.
Dopo la fine del comunismo, quasi la metà delle miniere dell’Alta Slesia sono state chiuse. Gli impiegati del settore sono passati da 300 mila a 80 mila in Polonia. Anche perché il carbone polacco non è di buona qualità né economico da estrarre. Costa meno importare quello della Russia. A Wujek è rimasta l’ultima vena, a 630 metri di profondità. «Quando finisce, si chiude», conferma Karol: «Il carbone è la nostra storia, non il nostro futuro».
L’architettura sovietica dà i primi segni di cedimento. E non è solo colpa dell’usura del tempo, secondo Joanna Flisowska del Climate Action Network: «Nella città di Bytom, costruita su una miniera, gli edifici sono pieni di crepe». La fine di un’era?