11 dicembre 2018
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Biografia di Susanna Tamaro
Susanna Tamaro, nata a Trieste il 12 dicembre 1957 (61 anni). Scrittrice. Oltre 15 milioni di copie vendute nel mondo con Va’ dove ti porta il cuore (1994). «Quando ero ancora un’adolescente, m’imbattei in un chiromante che gettò un’occhiata alla mia mano e vaticinò: “Prima dei 40 anni un evento straordinario sconvolgerà la tua vita”. Io pensai che sarei diventata una famosa regista…». «Sono passata come la regina del buonismo, ma io parlo sempre del male. Il male lo conosco come la cucina di casa mia. Parlo del male vero, non il male estetico con cui si baloccano molti scrittori che giocano con la distopia e poi vanno a mangiare gli gnocchi a casa di mamma» • «La famiglia di mia madre, Veneziani, era di origine ebraica». La bisnonna della Tamaro, Dora Veneziani, era cugina di secondo grado di Italo Svevo, nonché sua cognata, in quanto sorella di Livia Veneziani, la moglie dello scrittore. «Sono una pronipote di Italo Svevo. E sono cresciuta vicino a sua figlia Letizia, di cui porto il secondo nome. Frequentavo la casa, ma La coscienza di Zeno l’ho letto quando vivevo già a Roma. Ho lo stesso segno zodiacale di Svevo, la mia scrittura è attraversata dallo stesso distacco. Nessuno se ne accorse, ma Va’ dove ti porta il cuore era una prosecuzione di La coscienza di Zeno. La madre della protagonista è la più piccola delle sorelle del romanzo di Svevo, il cane Argo è lo stesso, la casa è la stessa. E la psicanalisi fa da sfondo in entrambi i libri» • Seconda di tre figli, visse un’infanzia difficile, con genitori anaffettivi e per lo più assenti. «Un padre che parla cinese, correttore di bozze, sparito più o meno alla mia nascita; una madre manager, proprietaria di un’agenzia di pubblicità, che quando s’è risposata ha voluto cancellare la sua vita precedente e i figli». «Era considerata una bambina apatica, senza vita, priva di interessi, quasi autistica. Sempre muta, se apriva bocca era per dire cose orrende, con voce baritonale che contrastava con il suo aspetto angelico. Voleva che la chiamassero Carlo, sognava di entrare all’accademia militare per avere la dignità, il prestigio di un uomo. “Poi mi bastò farmi tagliare le trecce, di nascosto, liberarmi da quella zavorra, per sentirmi bene» (Natalia Aspesi). La situazione era ulteriormente complicata dai suoi disturbi neurologici, solo molti anni dopo ricondotti alla sindrome di Asperger: «“Ai miei tempi […] non si conosceva questo problema. Esistevano solo bambini obbedienti e disobbedienti, non c’erano altre categorie. Il mio sogno era di essere obbediente, io non volevo dar fastidio a nessuno, neanche ai miei due fratelli maschi. Volevo essere la più amata, la più obbediente, ma, avendo questo nemico nella testa che nessuno riusciva a mettere a fuoco, io per prima non mi comportavo da bambina obbediente. Avevo grandi attacchi di rabbia per la strada, mi spaventavano i rumori, la folla, gli avvenimenti inaspettati. In più non comunicavo con l’esterno, stavo per morire di peritonite perché non avevo detto che mi faceva male la pancia. Ho sempre sofferto tanto. Forse mi sarebbe bastato avere una maestra che mi avesse capito, alle elementari. Ma la maestra aveva altri trenta bambini, dunque si tirava avanti, così. D’altra parte, ho pensato che questo distacco totale da tutto mi ha anche preservato dal disordine dei miei genitori, dalla loro follia”. […] Una ragazzina infelice, solitaria, totalmente incompresa, che a quindici anni, quindi nei primi anni Settanta, viene spedita in una casa famiglia, perché i Servizi sociali avevano deciso che non era più il caso di dormire a casa di sua madre. “Andavo a scuola, poi tornavo nella casa famiglia, dove vivevo in compagnia di borderline miei pari”» (Annalena Benini). Conseguito il diploma alle magistrali, «a diciott’anni qualcosa è cambiato. “Ho vinto una borsa di studio per andare a Roma a studiare da regista. Ero molto meravigliata di aver superato l’esame di ammissione, data la scarsa stima che avevo di me stessa. Ho avuto anche molta paura. Quando mi è stato detto che avevo vinto il concorso e dovevo andare a Roma, non volevo più andarci. Ma mia nonna, con la quale a quel tempo vivevo, mi ha detto: ‘Tu ci vai, e non si discute’. E ha avuto ragione. Quei primi anni a Roma sono stati gli anni di una liberazione enorme. Ero una giovane promettente regista, all’improvviso tutti mi ascoltavano, parlavo con tutti, io che per tutta l’infanzia ero quasi affetta da mutismo. Erano anni di grande fervore culturale, si andava sempre al cinema, si discuteva: mi sentivo finalmente piena di possibilità». Nel 1978, l’epifania: «Una mattina di maggio, attraversando Ponte Sisto, a Roma, vengo colpita da una frase. Colpita al punto tale che appena arrivata a Campo de’ Fiori, compro un piccolo quaderno e l’appunto. È stato quello il giorno in cui ho cominciato a scrivere». «Doveva esordire con una storia di vampiri. Per fare una parodia del femminismo. Aveva anche uno pseudonimo: Tamara von Susov. Ma nessun produttore si fidò della sceneggiatura, e così la carriera di Susanna Tamaro, diplomata in Regia al Centro sperimentale, già assistente di Samperi e autrice di alcuni documentari scientifici per la Rai, prese altre strade» (Paolo Mereghetti). «Le origini del suo primo parto letterario, Illmitz, rimasto nel cassetto per “soli”, si fa per dire, 34 anni, Susanna Tamaro le ricorda come una specie di “illuminazione”. “Ero al Wiener Staatsoper con il mio primo grande amore, che dopo qualche giorno avrebbe preso un aereo per il Giappone e che non avrei mai più rivisto. Assistevamo alla rappresentazione del Flauto magico: le celebri note della Regina della Notte mi travolsero e sentii che nei mesi successivi avrei concentrato tutte le mie energie in un libro”, rammenta la scrittrice triestina. […] Si rifugiò a Illmitz, al confine tra Austria e Ungheria, per comporre il racconto. Il piccolo borgo diede il titolo alla drammatica storia di solitudine e di passione pubblicata l’anno scorso [nel 2014 – ndr] da Bompiani. A incoraggiarla fu la nonna materna, che poi diventerà la protagonista del clamoroso successo Va’ dove ti porta il cuore. La colta e anziana signora, imparentata con Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, era il punto di riferimento di Susanna. […] Il manoscritto approdò sulla scrivania di Claudio Magris, il quale annunciò alla romanziera in erba di esserne stato conquistato. Soddisfatta? “Toccai il cielo con un dito, e mi sembrò di essere a un passo dalla pubblicazione!”. Convinzione errata. Magris bussò a tante porte, Einaudi, Sellerio, Adelphi, Garzanti, Rizzoli e altri, e per l’autrice prese corpo una lotta contro i mulini a vento. […] “Continuai a sfornare inediti, alcuni li ho persi e altri li conservo”. Cosa ne faceva, di tutta questa letteratura? “Allora non c’erano le e-mail, e i dattiloscritti si spedivano dall’ufficio postale. La signora che ritirava i pacchi era corpulenta e materna, e ogni volta che mi vedeva arrivare commentava ‘eccone un altro’ oppure ‘quando leggiamo qualcosa di suo?’. Io inviavo le mie fatiche sempre agli stessi interlocutori, Garzanti, Rizzoli, Einaudi, Mondadori, tanto che un editor spazientito mi comunicò: ‘Lei è ammirevole nel credere di saper scrivere’”. […] “Incontrai Alberto Moravia quando non aveva ancora iniziato la relazione con Carmen Llera e cominciammo a uscire insieme, lo accompagnavo al cinema. Eravamo entrambi piuttosto indipendenti, energici ed estrosi. Ci univa l’amore per gli animali, io adoravo il suo cane Arancio… Gli feci leggere un paio di romanzi e lui sentenziò: ‘I tuoi libri sono troppo tedeschi, sono libri dell’anima… Non possono piacere agli italiani, che invece sono viziati dalle bellezze in cui sono immersi, sono degli esteti che amano la pittura e il paesaggio’. Però era un grande intellettuale e una persona estremamente generosa, così mi propose di presentare uno degli inediti in Bompiani. ‘No, grazie’, gli risposi, ‘per tutto il resto della mia vita verrei bollata come la tua amante: mi rovineresti’”. Quanti anni passarono in attesa del gran momento? “Dieci: ero sul punto di buttare alle ortiche la penna quando nel 1989 arrivò del tutto inaspettata la chiamata di Cesare De Michelis della Marsilio che mi offriva di pubblicare La testa fra le nuvole, segnalatogli dal professore Elvio Guagnini”. Sconvolta? “Certo. I primi due libri [La testa fra le nuvole e Per voce sola, pubblicati da Marsilio rispettivamente nel 1989 e nel 1991 – ndr] andarono bene, ma non furono nulla di strepitoso. Per voce sola ricevette gli elogi di Federico Fellini, che paragonò i racconti a certe pagine di Oliver Twist o di America di Kafka. Mi telefonò per comunicarmi il suo entusiasmo e pensai a uno scherzo dei soliti amici burloni”. Poi ci fu l’exploit di Va’ dove ti porta il cuore. […] Quando debuttò con Ruben [il protagonista de La testa fra le nuvole – ndr], rosso di capelli e lentigginoso, quanti rifiuti aveva collezionato? “Ventotto sentenze negative e inappellabili”. Pronunciate dai tribunali editoriali e dai loro giudici, alcuni dei quali ancora oggi quando la incontrano cambiano strada» (Mirella Serri). Quando, nel 1994, uscì Va’ dove ti porta il cuore, «lei aveva trentasette anni, viveva a Roma in una casa minuscola da studente, non aveva un soldo. […] Il libro era uscito a gennaio con Baldini&Castoldi, senza clamore. Ma, già a partire dalla prima e unica presentazione al castello di Poppi, vicino ad Arezzo, un mese dopo, tre o quattro signore le parlarono del libro con grande passione, e Susanna per la prima volta pensò: “Che bello!”. Dopo l’estate, e dopo un’apparizione al Maurizio Costanzo Show e ad Harem, condotto da Catherine Spaak, il libro aveva venduto già centinaia di migliaia di copie, che raggiunsero il primo milione a dicembre di quell’anno. […] Un romanzo famigliare, scritto da una giovane donna schiva, che racconta la storia di Olga, un’anziana donna triestina che attraversa la Seconda guerra mondiale, e che diventa un bestseller tradotto in tutto il mondo. “Per me è stato terribile – dice adesso Susanna Tamaro –, […] uno choc pazzesco. Tutti volevano interviste, volevano fare le copertine, programmi televisivi. Io vivevo nel terrore e non sapevo come comportarmi, non conoscevo le dinamiche mondane e, avendo l’Asperger, ancora meno sapevo gestirle. Non sapevo cosa potevo fare, cosa potevo dire, cosa non dovevo dire. C’era un certo paternalistico ‘pat pat’ nei miei confronti. Il pensiero era: un libro per segretarie. Poi, man mano che il successo del libro cresceva, il ‘pat pat’ diventava disprezzo. […] Poi però c’era il postino che arrivava con un trolley di posta solo per me, da tutto il mondo. Per anni e anni ho risposto a migliaia di lettere, che mi hanno restituito anche un quadro del Paese, dell’Italia in generale, straordinario”. […] Il mondo intellettuale però è stato feroce con Susanna Tamaro. “Sono una donna. […] E non avevo un editore potente: potevano sparare quanto volevano. Non avevo nemmeno studi accademici alle spalle, ero una totale autodidatta. E poi c’era il grande tabù del cuore. Avevo osato mettere la parola ‘cuore’ nel titolo”. […] Hanno detto di lei che era pagata da Berlusconi (perché Berlusconi era entrato in politica nel 1994), le hanno detto che era reazionaria, fascista, buonista, nazista, trash, hanno annunciato al telegiornale il suo suicidio. “Adesso sono consapevole di aver subìto un linciaggio, sul momento non capivo. Mi hanno tolto per sempre la gioia di scrivere. Accendevo la radio e c’era un giornalista che parlava malissimo di me, aprivo un giornale e mi insultavano. Era una vera persecuzione”. […] Fascista, cattolica integralista. E tutto questo, perché? “Cattolica integralista perché in Anima mundi ho messo alla fine il personaggio di una suora. Se avessi messo le stesse parole in bocca a un monaco buddhista, avrei avuto di sicuro più approvazione. Fascista perché ho osato dire che c’erano stati i gulag. Allora era ancora un tabù ammetterlo. Io sono cresciuta sul confine con la Jugoslavia. Il comunismo l’ho sperimentato dal vivo fin da quando ero bambina: andavamo a fare la spesa al di là del confine, avevo tanti amici in Croazia, in Jugoslavia, quando ero adolescente. Conoscevo bene la tragedia di tanti italiani idealisti che sono andati in Jugoslavia per costruire il comunismo e che, quando Tito si è separato dalla Russia, sono stati ammazzati. È stata una tragedia dostoevskijana spaventosa. Ho voluto parlarne nel mio libro, e sono diventata di colpo fascista. […] Per me è stato molto duro, veramente molto duro sopravvivere. Io non so come non ne sono morta”» (Benini). Negli anni successivi, pur senza ripetere il trionfo iniziale, la Tamaro ha continuato a scrivere numerosi libri, tra cui romanzi di discreto successo – Ascolta la mia voce (Rizzoli 2006), considerato il seguito di Va’ dove ti porta il cuore; Luisito. Una storia d’amore (Rizzoli 2008); Per sempre (Giunti 2011); Ogni angelo è tremendo (Bompiani 2013), sorta di autobiografia romanzata –, racconti – Rispondimi (Rizzoli 2001); Il castello dei sogni (Mondadori 2002); Fuori (Rizzoli 2003) –, libri per l’infanzia – genere in cui si era cimentata già con Cuore di ciccia (Mondadori 1992) e Il cerchio magico (Mondadori 1994) e ripreso più volte in seguito, da ultimo con Salta Bart! (Giunti 2014), cui nel 2016 è stato assegnato il primo Premio Strega Ragazze e Ragazzi; ascrivibile al genere favolistico ma rivolto più agli adulti che ai bambini è invece La tigre e l’acrobata (La Nave di Teseo 2016) – e testi d’altro genere, dal saggio L’ isola che c’è. Il nostro tempo, l’Italia, i nostri figli (Lindau 2011) alle raccolte degli articoli scritti per le rubriche da lei tenute su Famiglia Cristiana (Cara Mathilda, San Paolo 1997) e su Avvenire (Un cuore pensante, Bompiani 2015). «L’ultimo libro, Il tuo sorriso illumina il mondo, uscito per Solferino, è una lunga bellissima lettera al grande amico poeta Pierluigi Cappello, morto nel 2017 per una terribile malattia. Si sono presi cura l’uno dell’altra, dell’amore per la natura, il cielo, gli animali, la vita. E in questo libro Susanna Tamaro ha parlato di sé, e del suo dolore, parlando a lui che non c’è più. Ha raccontato di un’infanzia terribile, e ha raccontato il male. La cattiveria pura e assoluta degli esseri umani verso gli altri esseri umani» (Benini). «Scrivere questo libro è stato difficilissimo. L’avevo promesso a Pierluigi, ma è stato davvero doloroso risentire nella mia testa la sua voce, rivivere i nostri giorni spesi assieme. Nelle prime 50 pagine ho lottato, pensavo di non farcela. Ho fatto bene a tenere duro: mi sono sentita liberata quando l’ho concluso. Più leggera. Ho potuto dire tante cose di cui non avevo parlato negli anni e libri precedenti. Penso che dopo questa catarsi scriverò libri più leggeri» • «Giornalista, autrice di canzoni, programmista Rai, regista, sceneggiatrice: prima del successo come scrittrice ha fatto tanti lavoro diversi. Se oggi non fosse diventata così famosa, cosa avrebbe fatto? “Sicuramente non la programmista, perché è stato il periodo più infelice della mia vita. Forse, sarei diventata una maestra”» (Mary Giuffré). «Da piccola volevo fare lo zoologo, la scrittura non mi interessava. Leggevo ossessivamente due volumi di un’enciclopedia tedesca, il Brehm, di uno zoologo dell’Ottocento: è stato il libro su cui ho sognato durante l’infanzia» (a Eleonora Barbieri) • A proposito del suo disturbo: «Soffro della sindrome di Asperger: è questa la mia invisibile sedia a rotelle, la prigione in cui vivo da quando ho memoria di me stessa. La mia testa non è molto diversa da una vecchia motocicletta. In certi momenti la manopola del gas va al massimo, in altri le candele sono sporche e il motore si ingolfa. […] Basta un minimo rumore, un evento imprevisto, e dentro di me si scatena il disordine. E con il disordine la disperazione. Sbatto allora la testa contro il muro. “Non capisco più niente!” ripeto, gridando. Tutto in me si fa buio. Non so più da che parte cominciare a rimettere tutto a posto. […] E che cos’è che mi permette di sopravvivere alla fragilità dei miei giorni? Tutto ciò che è limitato, ripetitivo, stabile. Tutti i mondi in cui quello che accade è chiaro, senza possibilità di fraintendimenti. Praticare arti marziali, osservare le api, suonare il pianoforte, raccogliere quasi ossessivamente vecchie biciclette, passare ore a curarle per il senso di estatica meraviglia che provo davanti alla loro meccanica perfetta. Vivere tra la mia stanza e il giardino, tra lo studio e il frutteto. Vivere circondata da animali – esseri innocenti con i quali non si può non capirsi – e da poche persone che mi accettano come sono. Ho avuto anche la fortuna di poter costruire intorno a me, nel corso degli anni, un mondo a mia misura» • Da anni vive in una fattoria sulle colline di Orvieto insieme alla sceneggiatrice e scrittrice Roberta Mazzoni, «a cui devo tutto: senza di lei non sarei mai riuscita a scrivere, né a vivere. Viviamo insieme da trent’anni, ma mi sembra ieri che ci siamo conosciute. Ogni mattina siamo felici di vederci. Per tirare fuori quello che avevo dentro avevo bisogno di qualcuno che mi volesse bene: io avevo raggiunto il grado zero dell’umanità, partivo da una vita di rifiuto. E poi, con la sindrome neurologica che allora non sapevo di avere, ero praticamente paralizzata. Roberta mi ha aiutata in tutto: nelle cose della vita quotidiana e soprattutto nel rapporto con il mondo. È stata la mia editor e la mia salvezza pratica». «Sono una natura libera, e il venire imprigionata in qualsiasi definizione mi rende insofferente. Per tutta la mia infanzia ho sognato una carriera militare, poi, quando mi sono innamorata di un ragazzo, ho desiderato di sposarlo e di fare tanti figli con lui. Alla fine, dopo una vita sentimentale piuttosto intensa, ho privilegiato la mia natura solitaria, condividendo la mia vita in campagna con un’amica». «Io sono single. Se fossi gay, sarei felicissima di dirlo, ma non è così. I miei libri sono pieni di storie tra uomo e donna che si massacrano. Non c’è una traccia saffica nelle mie pagine. Viviamo in un mondo claustrofobico: non puoi vivere con un’amica se non sei gay. […] Ho capito che si può essere pienamente femminili e sviluppare il proprio istinto materno anche senza un figlio proprio. Detesto la proprietà. Mi sono occupata dei bambini di una famiglia peruviana che è vissuta a casa nostra, li ho aiutati a crescere» (a Giulia Santerini) • «A 6 anni, ai giardini pubblici, una bambina mi guardò e chiese alla mamma se ero un maschio o una femmina. Tutti pensano da anni che io sia un maschio: saranno i piedi o le mani grandi. Con un fidanzato ci presero a male parole credendoci due gay. Nei bagni delle femmine ho difficoltà a entrare, una volta presi una borsettata. Le difficoltà di genere le capisco. Ma sono contenta di non essere andata da uno psicologo. Mi sarei focalizzata solo su quel lato della mia vita» • «Sono credente e praticante. […] Bisogna cercare di vivere con il cuore e la mente aperta. Accogliere tutto ciò che di creativo c’è nella vita. Tutti i discorsi sull’aldilà che importanza hanno? Magari “di là” non c’è niente. Però intanto l’”al di qua” l’ho vissuto magnificamente. Il bene è vivere la fede, sapendo di non dover inseguire buoni premi. Vivere accogliendo l’umano» (ad Antonio Gnoli). «Non esistono scrittori cattolici. Esistono solo scrittori di lingua inglese, italiana, francese, polacca, russa» • Contraria ad aborto (ritiene però che «una società civile debba garantire alle donne la possibilità di farlo nel migliore dei modi»), eutanasia («La cosa che trovo sconvolgente è l’istituzionalizzazione della morte. […] Oggi la morte è stata ideologizzata, è entrata nel meccanismo della legge. Si è perso il senso del sacro») e fecondazione eterologa («Ma come, una parte delle tue viscere viene prelevata dal tuo corpo e surgelata in un frigorifero, e nessuno dice nulla? L’essere umano non può essere figlio di un contratto economico»). Contraria anche all’educazione sessuale nelle scuole: «Non essendoci più l’educazione, non ci rimane che quella sessuale. E se fosse giunto il momento di lasciare perdere le forzature ideologiche, da una parte e dall’altra, e di cominciare a parlare seriamente, tra di noi e ai nostri figli, di tutto ciò che sesso non è?» • «Una cosa che la offende […] è l’essere stata definita antifemminista perché ha dichiarato di non riconoscersi nel femminismo militante che era in primo piano negli anni della sua giovinezza: “Alle parole e agli slogan ho preferito gesti concreti, creando una fondazione che si occupa di avviare progetti di sostegno per lo studio e il lavoro femminile e partecipando alla costruzione di una casa rifugio per le donne maltrattate”» (Leonetta Bentivoglio) • Uno dei rari pronunciamenti apertamente politici risale al luglio 1994, quando, intervistata da Lietta Tornabuoni, dichiarò: «Io sono conservatrice. Il mio ideale politico sarebbe una destra illuminata, che in Italia non c’è» • «Leggo in maniera ossessiva. È una virtù necessaria per scrivere. Leggo di mineralogia, di botanica e di scienze in generale. Ma leggo anche i testi per bambini: è un mondo che mi affascina. Certo, leggo anche la narrativa contemporanea, […] ma spesso rimango delusa. Non riesco più a trovare testi che mi emozionino» • «Bisogna essere ossessivi per scrivere. E questo vuol dire essere dei maniaci della perfezione. […] E poi essere pronti a soffrire, farsi coinvolgere emotivamente, assumere il dolore dei protagonisti. […] Bisogna offrire al lettore la vita racchiusa in una frase» (a Pierfrancesco Matarazzo). «“Per me, meno si scrive, meglio è. Se uso un aggettivo, deve essere perfetto. Uno solo, non tre. La frase deve essere scolpita: è l’asciuttezza che la rende memorabile”. Come l’ha imparata? “Sono cresciuta a Trieste, da bambina ho avuto molto tedesco nelle orecchie: una lingua di grande precisione. Questa sobrietà nordica mi ha influenzata”» (Barbieri) • «Susanna è una figura minuta, estranea a qualsiasi tentazione di vanità. […] Tutto, nella sua persona, ignora le sottolineature. Nel modo di fare è asciutta. Però è anche docile, protesa all’ascolto. La zazzera è corta e geometrica, lo sguardo è di una limpidezza quasi allarmante. Ha un piglio androgino e giovanilissimo, da adolescente o da folletto» (Bentivoglio) • «Non c’è pagina, ma che dico?, non c’è frase, non c’è parola (così come, d’altra parte, non c’è situazione o personaggio) del breve ma interminabile romanzo che non sia intrisa d’ovvietà, che non sia, anzi, l’ovvietà stessa fatta a suono e grammatica, l’incarnazione, la discesa in terra del più puro concetto di ovvietà» (Giovanni Raboni, a proposito di Va’ dove ti porta il cuore). «La Tamaro riesce a usare la leggerezza che fa giungere al cuore delle cose» (Renato Minore) • «Non credo che avrei scritto se avessi avuto una famiglia più “regolare”. O forse avrei scritto cose completamente diverse». «È stata la scrittura a farmi andare avanti, invadendomi all’improvviso e in modo misterioso, come un terzo occhio apertosi dentro di me. È una forza capace di procedere per proprio conto». «“Nonostante abbia scritto Va’ dove mi porta il cuore, nonostante quel successo mondiale, non ho mai tentato di replicarmi. Penso sempre che i lettori si annoierebbero ancor di più di me se mi ripetessi. Questo vuol dire anche perdere del pubblico per strada, ma per me va bene così”». «Spesso la gente mi ferma e mi dice: lei ha scritto proprio quello che io sentivo dentro, ma non trovavo le parole per dirlo. Trovarle è il compito della letteratura, ma questo la critica non te lo perdona, e in un mondo necrofilo come quello di oggi la mediocrità del sarcasmo non comprende una letteratura che lasci una finestra aperta sulla redenzione e la speranza. Se scrivi pagine cupe e disperate, allora vai bene: altrimenti, sembra che ti sia svenduta alla facilità più ovvia». «Che fine hanno fatto gli scrittori impegnati? Io non avrei scritto nemmeno una riga se non avessi voluto fare chiarezza su cose che sembravano scontate trent’anni fa e ora sono state divorate dal politicamente corretto. L’impegno è fondamentale mentre tutto è autoreferenziale. […] Bisogna essere fuori da tutto per essere coscienza critica. Non mescolarsi con nessun potere».