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 2018  dicembre 10 Lunedì calendario

Biografia di Jean-Louis Trintignant

Jean-Louis Trintignant, nato a Piolenc (Provenza, Francia) l’11 dicembre 1930 (88 anni). Attore. Palma d’oro alla migliore interpretazione maschile nel 1969 (Z – L’orgia del potere di Costa-Gavras); Orso d’argento per il miglior attore nel 1968 (L’uomo che mente di Alain Robbe-Grillet). «Ho girato più di centotrenta film. Ne ho fatti cento di troppo» • Figlio dell’industriale e politico Raoul Trintignant e nipote del celebre pilota automobilistico Maurice Trintignant (1917-2005). «“Mia madre era una vera borghese! […] Voleva diventare attrice drammatica. Conosceva a memoria quasi tutte le tragedie di Racine e di Corneille, e adorava recitare poesie. Sono convinto che abbia avuto una forte influenza su di me, sul mio desiderio di intraprendere una carriera artistica”. Tua madre ti ha vestito da bambina fino all’età di cinque anni… “Sì. Ero il secondogenito. Mio fratello maggiore aveva due anni più di me, e mia madre desiderava tanto avere una femmina. Quando sono nato, non riusciva a farsi una ragione di avere avuto un altro maschietto, così mi ha cresciuto come una bambina. Strano, no? Doveva essere una vera ossessione per lei, perché a distanza di anni, quando le ho presentato la mia prima moglie, mia madre le ha detto: ‘Ah! Rimpiango che mio figlio non sia omosessuale, perché in questo modo non lo perderei!’. Era una persona possessiva e magnifica al tempo stesso. È incredibile dire una cosa del genere alla donna che vive con il proprio figlio!”. Tua madre ha rinunciato al sogno di diventare un’attrice? “Sì, come accade a molte persone di estrazione borghese che non hanno il coraggio di fare il salto che separa il livello amatoriale da quello professionistico”. […] “Già da piccolo passavo molto tempo da solo. Credo che sia giusto trasmettere ai bambini il piacere della solitudine. […] Ai miei genitori importava solo che andassi bene a scuola: l’essenziale per loro era questo”. Come riempivi quella solitudine? “Già allora facevo un sacco di cose, ad esempio giocavo a bocce da solo. Mi ha appassionato fino a undici, dodici anni. E poi, davo spazio alla fantasia. […] Quando si è soli si ha una spiccata tendenza a raccontarsi storie. Io non ho mai smesso di farlo. Continuo ancora oggi. Quando ero piccolo inventavo storie sugli adulti, ora invece sono i bambini a commuovermi» (André Asséo). «Riconosco di non essere mai stato un tipo allegro. Ho avuto un’adolescenza fortunata, i miei genitori erano dei piccoli borghesi gentili, ma per me è stato un periodo molto triste. Non sopportavo quella vita, e ho tentato più volte di suicidarmi». «Come è nato il sogno di recitare? “È nato al Théâtre du Gymnase di Marsiglia. All’ultimo piano c’era una sala prove, dove un professore faceva lezione ogni domenica mattina. È stato il mio primo approccio all’arte drammatica. Subito dopo la guerra, abitavo a Aix-en-Provence. Arrivavo a Marsiglia in pullman, e questo professore, che era anche il direttore del teatro, mi faceva lavorare sui ruoli classici dell’attor giovane. Lo trovavo interessante, ma niente di più. Poi, vedendo recitare Charles Dullin nell’Avaro, è arrivato il colpo di fulmine. Mi ricordo perfettamente la data: 11 dicembre 1949, il giorno del mio compleanno. Dullin è morto subito dopo, quello fu il suo ultimo spettacolo. Uscendo da teatro, ho preso la decisione: sarei andato a Parigi per iscrivermi alla scuola di Dullin. Ovviamente, pensavo di trovare lui. La sua interpretazione di Arpagone mi aveva davvero impressionato”. […] Nel 1950, decidi di “salire” a Parigi. […] “Il mio obiettivo era diventare un attore teatrale e un regista cinematografico. Questo è il motivo per cui sono andato all’Idhec, l’Institut des heautes études cinématographiques. La selezione era abbastanza severa. […] Eravamo circa una trentina per corso, e lì ho conosciuto Alain Cavalier e Louis Malle, con i quali andavo molto d’accordo”» (Asséo). «Il debutto sui palcoscenici parigini non si fa attendere, anche se i ruoli a lui assegnati sono modesti e spesso insignificanti, finché nel 1955 il regista Robert Hossein non lo nota, facendogli sostenere un ruolo di gran rilievo in una sua commedia, Responsabilité limitée. Bello, elegante, aria scanzonata da bravo giovane a volte timido, a volte irriverente, entra nel cinema dalla porta principale sostenendo con intensa partecipazione emotiva un ruolo importante accanto a Brigitte Bardot, della quale è follemente innamorato in un film all’epoca considerato scandaloso: Piace a troppi (Et Dieu… créa la femme) di Roger Vadim. Il successo è folgorante, ma a causa degli impegni militari è costretto ad allontanarsi, e a dimenticare Brigitte. Di questo distacco risente sia il suo legame sentimentale con l’attrice che la sua attività artistica. Attore di solida preparazione, appena ottenuto il congedo riprende in pieno i suoi contatti col cinema, ed eccolo catapultato nel grande cinema italiano, dove tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta ottiene due ruoli di grande prestigio, grazie all’intuito di due registi di altrettanto prestigio. Uno è Valerio Zurlini, che gli affida il ruolo del giovane figlio di un gerarca fascista, uno studente in vacanza a Riccione nell’estate del 1943 che si innamora perdutamente della vedova di un combattente nel bellissimo e struggente Estate violenta (1959); l’altro è Dino Risi, che gli crea il “ruolo della sua vita”, anche qui un timido e imbranato studente, trascinato controvoglia in un viaggio iniziatico, che finirà tragicamente, verso mete estive per vacanze da sogno da un irresponsabile fanfarone (un Gassman impagabile!) ne Il sorpasso (1962), diventato il film cult della commedia all’italiana, così dolce e così amara. Un Jean-Louis Trintignant più italiano di così è difficile immaginarlo, in verità più italiano di un vero italiano, più apprezzato e lodato nel cinema nostrano che non in quello francese, dove è certamente meno conosciuto, finché un altro regista stavolta francese, Claude Lelouch, non lo affianca a una straordinaria Anouk Aimée in un cult-movie di grande successo di pubblico ma poco apprezzato dalla critica, Un uomo, una donna (Un homme et une femme, 1966), storia melodrammatico-sentimentale di un incontro tra due persone sole, campione d’incassi al botteghino, Palma d’Oro a Cannes e Oscar per il miglior film straniero, in cui Trintignant è pressoché perfetto. Ma è pur sempre in Italia che l’attore, che ha raggiunto un ragguardevole grado di maturità, ottiene ancora le migliori opportunità, entrando in produzioni di grande spessore, perfino in un western anomalo ambientato nel gelido Utah, diretto con competenza da Sergio Corbucci, Il grande silenzio (1968), con Trintignant nel ruolo del killer “Silenzio”. È poi uno dei protagonisti della commedia trasgressiva Metti, una sera a cena (1969) diretta da Giuseppe Patroni Griffi. […] Infine, tra i moltissimi film da lui interpretati, il ruolo […] considerato da Jean-Louis Trintignant il migliore della sua carriera, quello del tenebroso assassino inviato in Francia dalla polizia segreta fascista ne Il conformista (1970), affascinante dramma lirico di Bernardo Bertolucci. A proposito di Bertolucci, un cruccio e un rimpianto: quello d’aver rinunciato, solo per pudore, al ruolo offertogli dal regista italiano per Ultimo tango a Parigi (1972). Come sempre attore di grandi risorse, pur con il passare del tempo, Trintignant continua una carriera densa di soddisfazioni dividendosi tra Francia e Italia. In Francia coglie sporadicamente qualche buon frutto, sotto la guida dell’intellettuale Alain Robbe-Grillet, uno dei pochi francesi a saperlo dirigere ottimamente dopo averne intuito le possibilità interpretative sostenute da una subdola e affascinante ambiguità. Ma ci sono anche Costa-Gavras, Jacques Deray e Éric Rohmer, che sanno cogliere nella sua recitazione talvolta scattante, talvolta troppo seriosa, piccoli tasselli di grande acutezza» (Enrico Lancia e Fabio Melelli). «Trintignant era […] nel pieno del successo, dal film-Oscar Un uomo e una donna di Claude Lelouch a Z – L’orgia del potere di Costa-Gavras (“Era l’amante di mia moglie, ma non gliene ho mai voluto, perché è una bella persona”) a Il conformista di Bernardo Bertolucci (“Il ruolo più bello della mia vita”), ma già tentennava per un’altra passione: le corse automobilistiche, cui l’avevano soggiogato fin da piccolo gli exploit dello zio pilota Maurice. Si abbandonerà ai circuiti, alternandoli ai set, nella prima metà degli anni Ottanta. […] Nei cinque anni in cui si dedicò professionalmente alle corse, girò tra Francia e Italia ventitré film, quasi cinque all’anno (una media da Totò): tre di Scola, tra cui La terrazza, l’ultimo Truffaut di Finalmente domenica! e il suo ultimo italiano, lo stupendo Colpire al cuore di Gianni Amelio con Laura Morante. Una schermata trionfale al confronto dei vergognosi piazzamenti su pista: settimo nell’81 alla 24 Ore di Spa-Francorchamps, cinquantunesimo nell’82 al Rally di Montecarlo, quarantasettesimo nell’84… Masochismo d’attore o sadismo di pilota? “E pensi che ho anche rischiato di morire, in due incidenti, di cui uno molto grave: nell’80 alla 24 Ore di Le Mans sono uscito di pista a 325 chilometri all’ora. Fortunatamente in un rettilineo. Scoppiò la ruota posteriore sinistra. Sono rimbalzato sei volte sulle barriere di sicurezza, senza mai colpirle frontalmente. Ma è questo che mi è sempre piaciuto delle gare: è una guerra di nervi, affronti una curva a tale o talaltra velocità sapendo che è l’acceleratore a guidare la macchina e non tu, tu non puoi rallentare sennò è testacoda. Il brivido è tutto lì. Ciò detto, non è che fossi molto dotato per le corse. E poi ho cominciato tardi, dopo i quaranta, quando i piloti in genere smettono”» (Mario Serenellini). Nella seconda metà degli anni Ottanta Trintignant cominciò a mostrarsi sempre più insofferente nei confronti dell’industria cinematografica e del milieu parigino, decidendo di ritirarsi in Provenza e annunciando a più riprese la propria intenzione di dedicarsi esclusivamente al teatro («Il succedersi delle stagioni, gli odori delle piante aromatiche sono cose che provocano emozioni molto più forti e importanti di quelle che può suscitare un film»), salvo poi tornare sporadicamente a recitare in pellicole da lui ritenute particolarmente interessanti, con interpretazioni generalmente elogiate dalla critica. Tra queste, la più importante fu forse quella resa in Tre colori – Film rosso di Krzysztof Kieślowski nel 1994. «Jean-Louis Trintignant racconta che a convincerlo a incontrare l’autore polacco è stata sua figlia, la giovane attrice Marie: “Con il ruolo del giudice di Rouge ho molte cose in comune, a cominciare dalla tendenza alla misantropia. Ho trovato la sceneggiatura formidabile, e il lavoro con Kieślowski difficile ed insieme entusiasmante”. […] Non è la prima volta che Trintignant recita nella parte di un giudice: “Lo sono già stato nel ’68, nel film di Costa-Gavras Z – L’orgia del potere. Accettai il ruolo per amicizia e anche perché era limitato: richiedeva solo dieci giorni di lavorazione. E pensare che poi proprio a Cannes ho vinto, grazie a quel piccolo giudice, il premio per la migliore interpretazione”» (Fulvia Caprara). Negli ultimi anni è stata particolarmente acclamata la sua interpretazione dell’anziano professore che assiste amorevolmente la moglie malata (Emmanuelle Riva), finendo col porre personalmente termine alle sue sofferenze, in Amour di Michael Haneke, pellicola che nel 2012 si è aggiudicata la Palma d’oro al Festival di Cannes, con una speciale menzione per i due attori protagonisti da parte della giuria. «È vero, non volevo più fare cinema. […] Avevo deciso di dedicarmi solo al teatro, però la mia parte in Amour è eccezionale. In questo film ho visto me stesso». Nel settembre 2017, dopo aver girato un nuovo film con Haneke, Happy End, anch’esso presentato a Cannes, Trintignant rivelò di essere malato di cancro, dichiarando di volerlo combattere, senza smettere di recitare; nel luglio 2018, però, l’attore parve arrendersi, annunciando l’interruzione di ogni cura e il definitivo addio al cinema. Ciononostante, un paio di mesi dopo è stato visto intento a recitare in un nuovo film. «Si conosce il titolo, Gli anni più belli, e nient’altro, del seguito di Un uomo, una donna che Claude Lelouch ha iniziato a girare […] ancora lì, sulle spiagge immense e malinconiche di Deauville, in Normandia. Il regista non aveva detto nulla. Ma per le strade della cittadina, in questa fine d’estate, sono comparse grosse auto, una troupe indaffarata. E Lelouch (80 anni), Jean-Louis Trintignant (87) e Anouk Aimée (86). Ancora loro. Sciabadabadà. Era il 1966 quando il film uscì: nessuno scommetteva sul suo successo, dopo che il giovane Lelouch aveva fatto cilecca con tutti i precedenti. E invece quel filmone romantico e melodramma lieve sfondò, in Francia e all’estero. […] A luglio Trintignant aveva annunciato di voler lasciare il cinema, ma per Lelouch ha cambiato idea. […] Lelouch aveva già girato un sequel nel 1986 (Un uomo, una donna oggi), sempre con gli stessi attori: non aveva avuto successo. Ma vederli ora anziani sullo schermo sarà un’altra cosa» (Leonardo Martinelli) • «Trintignant in questi anni si è concesso raramente al cinema, ma è stato costantemente sulla scena teatrale, riscoprendo l’emozione di recitare di fronte al pubblico in spettacoli da lui creati, generosi, intimi, bellissimi» (Angela Zamparelli). «Il teatro è vita» • «Nel 1973 ha tentato, facendosi ulteriormente apprezzare, la carta della regia, mettendo in scena il noir Una giornata spesa bene (Une journée bien remplie), e riprovandoci nel 1979 con la commedia nera Il maestro di nuoto (Le maître-nageur), di nuovo con ottimi risultati» (Lancia e Melelli). Assai scarso, in realtà, all’epoca, il successo dei due film • Numerose le occasioni mancate. «Quando Coppola mi cercò per Apocalypse Now, che mi avrebbe forse aperto una carriera in Usa, non avevo voglia di muovermi dalla Francia. E nemmeno quando Spielberg mi volle per Incontri ravvicinati del terzo tipo, nel ruolo che poi è andato a François Truffaut. Provo più rimorsi, ma la scelta di Marlon Brando è stata ottima, per Ultimo tango a Parigi, dove avevo anche dato una mano a Bertolucci nella sceneggiatura. Ma mia figlia Marie, allora bambina e già attenta lettrice degli script che ricevevo, mi aveva scongiurato: “Papà, a scuola le mie compagne non finiranno mai di prendermi in giro”. E io non ho mai fatto nulla nella vita che potesse dispiacere a mia figlia. […] Con il vostro Paese ho avuto un rapporto privilegiato. Zurlini è stato per me un fratello maggiore: a Roma abitavo da lui. La mia “dolce vita” non è stata però via Veneto, ma la trattoria “Da Otello”, dove ci si ritrovava tutti, attori, registi, sceneggiatori. Spesso i film nascevano così, dalle battute, dalle chiacchiere. Una volta, mentre si scherzava sul colpo finito male nel Rififi di Dassin, al commento “Noi ci saremmo fatti una spaghettata!”, Monicelli s’alzò di botto: “La prendo io!”. Era l’idea dei Soliti ignoti. Purtroppo tra i molti film che ho girato da voi ho dovuto rinunciare a C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, dove sarei stato il professore intellettuale, e a Casanova, non tra i migliori Fellini: non potevo impegnarmi per un anno o più, senza sapere quando e se l’avremmo girato. Ma lo sa, che anche nel Sorpasso, diventato il mio logo italiano, sono stato preso per puro caso? Doveva interpretarlo Jacques Perrin, altro francese allora onnipresente nel vostro cinema. Le prime riprese, nelle strade vuote di Roma a Ferragosto, furono effettuate con la sua controfigura. Quando lui dovette rinunciare chiamarono me, semplicemente perché ero il più somigliante alla sua controfigura» (a Mario Serenellini) • Tre matrimoni, due divorzi: la prima moglie (1954-1956) fu l’attrice Stéphane Audran, divenuta poi musa e moglie di Claude Chabrol; la seconda (1961-1976) fu la regista Nadine Marquand, che lo impiegò nella maggior parte dei suoi film; nel 2000 il matrimonio con la pilota di rally Marianne Hoepfner, sua attuale consorte. Dalla Marquand ebbe tre figli: Marie (1962-2003), la prediletta, morta in seguito alle percosse ricevute dal compagno (il cantante Bertrand Cantat), Pauline (1969), morta in culla a Roma durante le riprese de Il conformista («Abbiamo interrotto le riprese per qualche giorno, Bertolucci è stato adorabile e molto presente. Poi abbiamo ricominciato a girare. Nella mia recitazione, c’è una prostrazione che mi travolge completamente e che conferisce al film una sfumatura del tutto sorprendente»), e Vincent (1973), l’unico rimastogli. «La morte di Marie, mia figlia, è stato il dolore più grande della mia vita. Mi era impossibile immaginare un giorno senza sentire la sua voce, senza vedere il suo sorriso. Niente al mondo avrebbe potuto farmi più male. Per due mesi sono stato come morto. Un morto vivente, incapace del minimo movimento. Due mesi senza praticamente aprire la bocca, senza emettere il minimo giudizio. La vita mi passava attorno senza che me ne accorgessi. Ma alla fine ho deciso di vivere. Di rivivere. La poesia mi ha soccorso. Già con Marie avevamo recitato Apollinaire. Dovevo seguire quel cammino. La poesia è diventata più importante di prima. È stata il rifugio che rappresentava una vita diversa». «Recitando ho trovato una terapia, un modo per uscire dalla malinconia. La poesia e la musica mi hanno aiutato a venirne fuori, e a ritrovare, in mancanza di speranza, almeno un po’ di senso». «Mia figlia ha avuto quattro figli da quattro uomini diversi, e tutti stanno con i papà. Tento di fare del mio meglio, però non sono un gran nonno. Credo di essere stato un buon padre, specialmente con Marie, che adoravo. Mio figlio Vincent si è lamentato: “Non mi hai dato abbastanza amore”. “Mi dispiace, l’ho dato tutto a tua sorella”» (a Maria Laura Giovagnini) • «Ho assunto oppio in dosi ragionevoli, e ho provato ogni genere di droga per curiosità! Credo che la qualità fondamentale di un artista sia l’immaginazione, e la droga riesce a stimolarla. Ho fumato erba, hashish, e ho anche fatto uso di eroina». «Sono un grande amante del vino. E… ne ho bevuto parecchio» • «Sono sempre stato di sinistra, perché penso che tutti i progressi si debbano più alla sinistra (si occupa delle ingiustizie sociali) che alla destra. Se sei interessato all’essere umano, non puoi essere che di sinistra». «“Io sono di sinistra e sono contro ogni genere di guerra”. Ma Trintignant in guerra ci è andato: in Algeria. “Ero più dalla parte degli algerini che di noi francesi”» (Emilia Costantini) • «Se il cinema mi ha dato grande popolarità, il teatro mi ha rapito». «"Da giovane ho interpretato una cinquantina di pièce, e per dieci anni di seguito Amleto. Il mio ruolo prediletto. Poi ho fatto […] film. Per il teatro non avevo più tempo, e lo rimpiango, perché è il territorio degli attori. Il film appartiene al regista: è lui a determinarlo". […] Rivede i suoi film? Quali considera i più riusciti? "Non li rivedo mai. Odio i ricordi. Comunque i primi sono quelli in cui ho dato il peggio. Anche Il sorpasso. Meglio quelli fatti più tardi, come Film rosso di Kieslowski. All’inizio recitavo solo ruoli di giovani gentili e perbene, come me. Ero felice quando mi si proponeva un ruolo diverso. Via via mi sono piaciuti sempre più i personaggi tormentati, con problemi. Magari perfidi o mascalzoni. La linearità dell’eroe buono non è interessante. Hitler è ripugnante, ma quale attore non vorrebbe interpretarlo?"» (Leonetta Bentivoglio) • «Una carriera straordinaria, costruita […] col genio e la finezza di un attore "senza parte". Puro, completo. Aperto a tutto. Come una superba tabula rasa dell’arte drammatica. Non a caso lui, che odia "il cosiddetto bel ruolo, la recitazione che stupisce", sente d’appartenere alla stessa "famiglia" di attori di Mastroianni: "Marcello considerava questo lavoro come una somma di piccoli dettagli da non notare. Lo è anche per me"» (Bentivoglio). «Cominciò a recitare nel cinema perché era indebitato, e un agente allora famoso, André Bernheim, gli promise una cifra mensile sostanziosa (minacciando di abbandonarlo, se l’attore avesse continuato a fare lo snob che preferisce il teatro). […] Alla produttrice che gli aveva dato il copione di Amour in un momento di grande sconforto, disse: “Ho più voglia di suicidarmi che di girare questo film”. Risposta: “Accetti di lavorare nel film: per suicidarsi avrà tempo dopo”» (Mariarosa Mancuso) • «I grandi attori non mentono più che il resto della specie umana. Per sposare i tratti di un’altra persona, per essere completamente il contrario di te stesso, bisogna conservare un’anima di bambino, come sanno fare alcuni attori immensi, come Michel Piccoli, che adoro. Il grande attore è quello che cerca e che, a forza di lavoro, troverà dentro di sé gli accenti della verità. La verità di un personaggio non sta negli ordini di un regista, ma nell´esigenza del proprio lavoro». «Mi piace essere un attore, anche se sarebbe naturale il contrario. Sono un timido e ho bisogno dei miei tempi: tutto il contrario del cinema, che si consuma nella frenesia». «Penso sempre che in scena ho recitato troppo: non avrei dovuto recitare, bensì essere naturale». «In realtà, avrei voluto fare il regista, ma recitare è più facile che dirigere un film» • «Ho avuto molta fortuna, ma è stato soprattutto un caso. Prévert diceva che "il caso è una cosa troppo importante per essere lasciata al caso", ma io sono come un tappo di sughero: mi sono lasciato trasportare dalla corrente». «La vecchiaia m’infastidisce. Vorrei essere più giovane. D’altronde, un amico una volta mi ha detto: dopo i sessant’anni, se quando ti svegli alla mattina non ti fa male da nessuna parte, è perché sei morto». «Alla fine della mia vita sono tornato alle mie origini: i campi, le vigne. Da una trentina d’anni vivo nella mia casa a Uzès, nei dintorni di Avignone. Nella mia famiglia, nessuno prima di me era mai salito fino a Parigi. Era lontana, Parigi. Ci ho vissuto venticinque anni. E poi ho rimesso radici nella mia campagna, dove sono cresciuto e dove mi sento meglio. Nipote e figlio di vignaioli, anch’io produco vino. Mi ci sono messo tardi, ma mi piace. Lo bevo anche, il vino: come il teatro, mi ha aiutato a vincere la timidezza. E poi: una sana sbornia non è meglio d’una mediocre lucidità?».