Tuttolibri, 8 dicembre 2018
Victor Hugo & gli altri: scrittori, poeti e registi alla prova del disegno
Pasolini che ausculta il proprio volto scavato, di martire predestinato, quasi fosse uno specchio cedevole: arena sanguinante di corrida pittorica. Fellini, che trascrive i propri saltimbanchi sogni fallici (da affidare poi al proprio terapeuta Bernhardt) come se fossero già germi di sequenze vaporose, o ilari palestre, dove far rimbalzare la sua ossessiva fantasia lusingata. Kiarostami, che usa il taccuino della fotografia innevata, come crogiuolo preparatorio, per i suoi filmici viaggi al confine dell’umanità. Eisenstein, che secerne segretissime omo-fantasie, da far stramazzare uno Stalin. Beckett, che affida il suo genio del nulla inospitale, e della desolazione, alla solitudine disorientata ed accecata di terrore di un Buster Keaton tragico (inventandosi regista di un Film che s’interroga mutamente sull’arroganza del vedere, del guardarsi, del voler capire). Schoenberg, che chiede innocentemente consiglio scritto a Kandinskij, per vaticinare se deve farsi musicista o pittore. Ed intanto accende nelle sue tele allucinate, quegli ipnotici fanali d’occhi, che portano lo spirito iconoclasta della sua avventura atonale, entro la palude macerata d’una sfida cromatica sconfinata. Scrittori, musicisti, drammaturghi, poeti che dipingono, che saggiano i colori, scarabocchiano, creano involontari o consapevoli capolavori. Per esubero di creatività, per tensione interiore, per gioco quotidiano d’immaginario, od intima drammaturgia, disturbata, dello spasmo espressivo. La consigliabilissima mostra «Le violon d’Ingres» (se ne parla troppo poco: cattivissimo segno di tempi ottusi, che puntano soltanto su valori fasulli!) si tiene, non a caso, a Villa Medici, regno incontrastato del «principe del disegno», e ritrattista sommo, J. A. Dominique Ingres il quale aveva un passatempo serissimo. Quello di suonare il violino, e non in modo dilettantesco. Da cui l’espressione francese idiomatica «violon d’Ingres»: che traduce l’anglosassone hobby.
Ebbene, potremmo partire proprio da questo strapazzato e venerato violino, in mostra, da quella traccia-macula consumata, di dedizione e sudore e ore di studio accanito, che sostituisce la mentoniera assente e porta ancora le stimmate del pittore-musicista, per interrogarsi su questa problematica, complessa, della pratica-adulterina di artisti che «usano» il disegno, nella maniera più diversa ed articolata. Spesso si tratta proprio di una partita-doppia, anche psicoanalitica. Non a caso la curatrice della mostra, Chiara Parisi, che ha avuto una sua educazione assai francese (e si sente, nelle presenze e nel taglio dell’elegante catalogo Electa) interroga non soltanto lo psicoanalista Bernard Granger, ma anche altri specialisti per giungere a capo di questa questione, in fondo irrisolvibile. Perché? Perché un artista celebrato per il suo «specialismo» decide di tradire en amateur (che è parola più forte di dilettante)la propria natura apparentemente risolta, con questa bigamia continua con la musa stregante della figuratività pittorica? Certo, la campionatura qui è vastissima (ed al posto di Carlo Levi, che ritrae i suoi amici Ginzburg, Neruda, oppure se stesso, avrebbero potuto esserci De Pisis, Lalla Romano o Fortini) George Sand al posto di Hugo e Cocteau, qualche russo, visto che Puskin o Gogol erano disegnatori magnifici, magari Mendelssohn al posto della sopravvalutata Etel Adan (mentre è assai interessante e forte il Nelson Mandela, che traduce nel tratto forte il suo senso vivo per la libertà). Ma è interessante comunque saggiare le varia tipologie, visto che non soltanto di «griffonage», si tratta, di scarabocchiature in margine della scrittura, o della partitura. Tra l’altro è curioso, perché lo stesso termine di «griffoner» -non è certo sia etimologia attendibile - evoca comunque quei grifoni e quei mostri rampanti, che s’occultavano e abitavano gli anfratti miniati dei capilettera istoriati di antifonari e libri d’oro. Fantasie capricciose ed esuberi vegetali, cresciuti vampirescamente tra le linee obbligate e soffocanti della scrittura lineare. In questo senso, maestro della devianza tangenziale e della fuga acrobatica, si rivela (in facsimile, ma nessuno mai, tranne Max Brod, che salvò lettere e diari, li ha mai veduti, in originale) Franz Kafka. Con questi suoi ominidi di puro inchiostro claustrofobo, spadaccini e ginnasti dell’ansia e del non-sense, che s’abbarbicano alle lettere come rampicanti-sanguisuga. Se David Lynch svuota le tasche del suo inconscio nella pianura nera di una pittura notturna (che sembra copiare il nostro, ma più bravo, Marco Fantini) e Sacha Guitry, Magritte e Apollinaire, si divertono con i loro giocattoli rubati; certo a dominare su tutti, è il sommo visionario Hugo, con le sue piovre vivide d’inchiostro, le sue abissali fantasticherie sub-oceaniche, il suo quasi compulsivo traboccare di automatismi grafici e leccornie nichiliste, al punto da far ingolosire i Surrealisti. Che invece demonizzarono il loro compagno di strada, Artaud. Che ammattisce, proprio dentro il suo disegno autoriflesso. Che macera la carta e la distrugge, mordendola di auto-accanimento analitico. Rompendo la macchina anatomica, che grida, sangue graffiato del colore, la stessa maledizione di Pasolini: «Il mondo non mi vuole più e non lo sa».