La Stampa, 8 dicembre 2018
Cronaca della Prima alla Scala
Resterà il 7 dicembre di Sergio Mattarella, e non solo perché era la sua prima «prima» dopo quelle saltate a causa del Giubileo, della crisi di governo e di altre calamità. Mai visto, in tanti Sant’Ambroeus, un Presidente accolto così. Lui saluta con i suoi sorrisi timidi, fa segno di sedersi, sembra colpito, forse commosso. Sta di fatto che questo teatro ruscellante di fiori va avanti ad applaudirlo.
Tre minuti, cinque? I conteggi divergono (al solito: il tempo è relativo, ma alla Scala di più), ma si capisce che i battimani e i «Viva il Presidente!» sono tutto meno che rituali. Finché Riccardo Chailly, già sul podio, fa partire l’Inno. E anche qui, meraviglia: dietro le quinte, il Coro si mette a cantarlo, in sala qualcuno lo segue, poi sono, siamo sempre di più, un po’ timidi ma alla fine commossi, felicemente stonati nello stringerci a coorte, in questo posto magico dove la Storia è in ogni angolo, dove l’Italia è stata fatta e dove c’è voglia di rifarla.
Adesso fioriranno le interpretazioni politiche. Si dirà che la Scala ha applaudito Mattarella per fischiare il governo populista, e in effetti da voci colte qua e là l’ipotesi sembra plausibile. Ma non importa. L’importante è che ieri sera l’opera, la Scala, Verdi, siano tornato a essere quello che sono sempre stati, identità, orgoglio, appartenenza, Italia, e l’Italia migliore. Bellissimo.
«Un applauso giustificato, Mattarella sta portando avanti un mandato straordinario», commenterà poi Chailly, raccontando che il Presidente gli ha detto che musica e cultura sono «un baluardo della democrazia». E il regista, Davide Livermore: «Se la prima della Scala rafforza il rapporto con le istituzioni e con chi garantisce la Costituzione, io ne sono fiero». Dopo l’Inno, l’Unno. Attila non era la scommessa o la riscoperta che dicono gli ignari: non è un titolo raro, negli ultimi anni lo si è visto dappertutto. L’importante è che la Scala nel rimetterlo in scena avesse una sua cifra interpretativa, magari discutibile ma forte. E qui c’era.
Affreschi di Raffaello animati
Lo testimoniano gli applausi finali, per Chailly, per Livermore e la sua squadra (nel loro caso, con un paio di buuu di prammatica), per i cantanti. Trionfatore della serata, il protagonista Ildar Abdrazakov, che non ha solo una gran voce ma qualcosa di più difficile da trovare: una personalità. Ma ovazioni anche per Saoia Hernandez, Odabella (debutto uno e trino, per lei: nella parte, alla Scala e al 7 dicembre, come un triplo salto mortale), Fabio Sartori, Foresto, e George Petean, Ezio. Più il Coro di Casoni, una delle poche certezze che ci restano. Bilancio: 14 minuti di applausi (e un incasso di due milioni e mezzo di euro).
Lo spettacolo è bello e furbo. Si copre sul fronte dei conservatori, cui per far digerire lo spostamento dell’azione in un Novecento distopico, in una dittatura tutta stivaloni, di destra o di sinistra non importa, viene ammannita una produzione «da Scala», come si diceva una volta, piena di effetti speciali, cavalli zeffirelliani, fiamme, fuochi, affreschi di Raffaello animati al computer, citazioni cinematografiche, virtuosismi scenotecnici. Però è anche una regia che ribalta lo stereotipo di Attila opera «risorgimentale». Perché alla fine l’unico personaggio onesto benché non «buono», con una sua morale magari basica ma vera è proprio lui, l’Unno invasore, il flagello di Dio. Mentre i suoi nemici, cioè noi, non ne escono affatto bene.
Una lezione ancora attuale
E allora, una volta di più, per Verdi amare appassionatamente l’Italia non significa assolvere gli italiani, ma anzi denunciarne i ritardi, i cinismi, le inadempienze, l’eterno firmare patti per poi violarli (tipo la tregua con gli Unni, o il fiscal compact). La frase che esaltava i loggioni del Quarantotto, «Avrai tu l’Universo / Resti l’Italia a me», la canta Ezio. Ma Ezio è anche un generale fellone che vuole mettersi d’accordo con il nemico cui dovrebbe fare la guerra, un traditore, insomma. Una volta di più, Verdi ci conosce troppo bene, e ci racconta con severità. È un patriota, non un nazionalista, anzi un sovranista. Andare a vedere le sue opere è ancora il modo migliore per capire di che pasta siamo fatti, e perché questa Milano europea, inclusiva e liberale si spelli le mani per un signore siciliano timido che ricorda ogni giorno, a tutti, valori e doveri.