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 2018  dicembre 08 Sabato calendario

La maledizione nascosta dentro il nome Tolstoj

SAN PIETROBURGO Il primo incontro con Ivan Tolstoj è stato qualche giorno fa alla Fiera del libro di Mosca, dove aveva allestito un banchetto e raccontava in russo qualcosa che incantava un folto drappello di persone. Nel fiume incomprensibile di parole russe ogni tanto si staccava il nome di Pinocchio. Ci siamo avvicinati allora per chiedere in inglese qualche informazione. Arcano svelato. L’uomo non era, come immaginabile, uno qualunque, ma Ivan Tolstoj, nipote di Aleksej Tolstoj, scrittore monumentale imparentato alla lontana con il più famoso Lev, e venerato ai tempi dell’Unione sovietica.
Lo chiamavano il "conte rosso" ed era una lettura obbligatoria nelle scuole, vincitore di tre premi Stalin, autore di romanzi storici maestosi come Pietro il Grande (mai ultimato) e Via al Calvario, trilogia in cui narrava della rivoluzione bolscevica. Alla fiera si parlava di un libro amatissimo dai bambini russi: La chiave d’oro. Le avventure di Buratino. La favola è una riscrittura della storia di Collodi in chiave sovietica, in cui Buratino (con una "t") lotta per aiutare le marionette di un teatro a ribellarsi al loro sfruttatore.
Ivan Tolstoj va di fretta, sta partendo per San Pietroburgo, dove l’aspetta un’altra presentazione del primo numero di Connaisseur, un almanacco mensile in lingua russa da lui creato, stampato a Praga, che si occuperà degli scambi intellettuali tra Russia Ovest: «Ho il timore che potremmo ricadere in una nuova guerra fredda», dice. È un giornalista, tra le voci più note dell’intellighenzia russa e autore di un libro di successo sulle vicende editoriali del Dottor Zivago. Popolare anche grazie alle sue trasmissioni culturali su Radio Svodova, si definisce un "liberale conservatore". Due giorni dopo, riusciamo a rivederlo a San Pietroburgo. Per l’intervista sceglie la casa museo della poetessa Anna Achmatova, in uno stupendo palazzo del centro cittadino, non lontano dalla Prospettiva Nevskij.
Prima di iniziare a parlare aziona il registratore: «Non è perché non mi fidi, ma voglio essere sicuro di quello che verrà riportato».
Perché alla fiera del libro di Mosca parlava di Pinocchio?
«La storia di Buratino, pubblicata nel 1936, è molto nota in Russia, è una versione della favola di Collodi riscritta per i bambini russi. Ma di Pinocchio esistevano più versioni. Conservo ancora a casa un Pinocchio intitolato Ballerino in cui non compare Collodi».
In realtà si tratta di una rivisitazione in chiave sovieticostaliniana.
«Mio nonno Aleksej era uno scrittore di talento al di là di questo aspetto. In quegli stessi anni stava scrivendo il suo romanzo su Pietro il Grande. Erano gli anni Venti, era appena rientrato in Russia dall’Europa. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre si era trasferito a Berlino e a Parigi, ogni tanto andava anche in Italia, poi rientrò grazie all’aiuto di Trotskij. Scrivendo su Pietro il Grande pensava di promuovere la figura di un grande riformatore. Ma i primi due volumi non furono apprezzati da Stalin».
Perché, quale fu la critica?
«Nel libro Aleksej mostrava come Pietro il Grande sapesse perdonare i nemici, mentre Stalin non voleva perdonare nessuno. Per mio nonno fu un colpo, smise di lavorare al romanzo. Riuscì a riprenderlo solo all’inizio della seconda guerra mondiale, ma nel 1945 è morto lasciando la sua opera incompiuta».
Decise dopo la delusione di dedicarsi a Pinocchio?
«Ci stava già lavorando. Aveva iniziato a scriverlo dopo l’infarto seguito al divorzio da mia nonna. I medici gli raccomandavano di non stressarsi, così pensò di scrivere un libro più leggero. Fino a quando un giorno parlando con il suo amico Marsciak Samuil, il più noto autore sovietico di libri per l’infanzia, che era anche editore a Leningrado, gli è venuta l’idea di riscrivere completamente Pinocchio».
Una biografia storica e una favola, è un bel salto. Come faceva a gestire due progetti tanto distanti?
«La mia idea è che lo zar e il suo Pinocchio abbiano molti tratti in comune. Entrambi hanno un carattere impetuoso e appassionato e un passato difficile alle spalle».
Crede che suo nonno abbia subito una damnatio memoriae?
«Ha scritto libri che potremmo definire staliniani, ma bisogna valutare il contesto in cui viveva. Dopo l’insuccesso del romanzo su Pietro il Grande, preoccupato perché i suoi libri non piacevano al regime chiese consiglio a Maxim Gorkij. Fu lui a organizzargli un incontro con Klim Voroshilov, molto vicino al Cremlino, il quale gli consigliò di scrivere un libro su Stalin».
Lo fece?
«Scrisse Pane, romanzo storico del 1937 in cui compariva anche Stalin, dopodiché non ebbe più problemi. Ma è stato il suo unico libro su Stalin, per il resto la sua espressione artistica è stata libera. Le confesso però che più di Stalin oggi mi preoccupa la maledizione del nostro antenato Pëtr Tolstoj (ride)».
Di che si tratta?
«Pëtr, vissuto tra il ’600 e il ’700, era stato incaricato da Pietro il Grande di riportare in Russia suo figlio, Aleksej, che da Napoli pare stesse preparando un complotto contro il padre. Pëtr riportò in patria il ragazzo, che morì dopo poco in carcere in modo misterioso. Prima però fece in tempo a maledire tutti i Tolstoj».
Suo nonno conosceva l’altro Tolstoj, il più famoso Lev?
«È un’unica grande famiglia, si conoscevano certo, aveva anche letto i suoi lavori».
A lei piacciono le opere di Lev Tolstoj?
«I romanzi, ma non amo i suoi articoli su religione, pacifismo, fame. Onestamente non mi convincono».
 Perché sta lanciando una rivista internazionale in lingua russa?
«Credo che la Russia stia trascurando il rapporto con l’Occidente. La guerra fredda è finita negli anni Novanta ma mi sembra stia ritornando».
Come mai ha scelto di lasciare il suo Paese?
«Sono andato via dall’Unione sovietica nel 1988 e ho trascorso cinque anni a Parigi. Volevo vedere il mondo, leggere libri vietati, viaggiare. Un desiderio molto normale venendo dalla "prigione" sovietica».
Perché ha scelto il museo di Anna Achmatova per questo incontro?
«Mio nonno è stato innamorato di lei. Nella copertina di un suo romanzo c’è il suo ritratto».
Avevano però storie politiche molte diverse.
«Anche Achmatova per sopravvivere aveva dovuto tacere.
Per salvare suo figlio dalla prigione era stata costretta a scrivere poesie dedicate a Stalin, ma questo non fa di lei una staliniana. Come un romanzo non fa di mio nonno uno staliniano».