8 dicembre 2018
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Biografia di Gigi Radice (in morte)
Gianni Mura per la Repubblica
Lo chiamavano il tedesco. Biondo, occhi azzurri, giocatore del Milan. Al paese le ragazze lo mangiavano con gli occhi. Tre scudetti in rossonero. Giocava (bene) da mediano interditore o da terzino sinistro. «Ero riserva e non vedevo l’ora di prendere il posto di quello svedese anzianotto, ma era di ferro, non si rompeva mai. Un giorno si fracassò la testa e io passai tutta la settimana sognando di rimpiazzarlo. Ma la domenica giocò con la testa bendata. Liedholm aveva 36 anni, io 23». Con i primi guadagni Gigi Radice si era comprato una 600 bianca e scendeva dal Villaggio Snia di Cesano Maderno, il padre era operaio, e si fermava a Cusano Milanino per dare uno strappo al più giovane Trapattoni sulla via di Milanello. Radice era più sicuro di sé, quasi spavaldo. Il Trap, quasi timido. Gigi era a Wembley quando il Milan vinse la prima Coppa dei Campioni, ma non giocò. Da calciatore ebbe poca fortuna. Era arrivato in Nazionale, in Cile nel ’62, e fu uno dei pochi imbattuti: nella mattanza col Cile non c’era, nel pareggio con i tedeschi e nella vittoria sugli svizzeri sì. Non aveva ancora 30 anni e fu costretto ad abbandonare il calcio giocato: legamenti del ginocchio, oggi si può intervenire, allora no.
Da allenatore comincia vicino a casa, portando in B il Monza. E a Monza finisce nel ’98: lo riporta in B e viene esonerato l’anno dopo alla quinta di campionato. In mezzo, Fiorentina, Cagliari, Torino, Bologna (settimo, superando 5 punti di penalizzazione per il calcioscommesse), mezzo campionato al Milan, retrocesso in B, e ancora Bari, Inter, Torino, Roma, Cagliari, Fiorentina (squadra al 6° posto, esonerato da Vittorio Cecchi Gori in diretta tv al Processo di Biscardi), Cagliari, Genoa. Era un sopravvissuto: nel ’79, in un incidente sull’autostrada dei Fiori, lui si salvò ma morirono Paolo Barison e un comune amico. Gigi era un uomo tutto d’un pezzo, niente compromessi. Onesto ma di carattere ruvido, capitava abbastanza spesso che litigasse con dirigenti che non rispettavano i ruoli: «Che calcio è questo dove chi ha più soldi crede di potersi permettere tutto?».
Il suo capolavoro è lo scudetto del Torino nel 1976, primo e unico dopo Superga. Arrivato da Cagliari, al presidente Pianelli aveva chiesto solo due acquisti: un difensore e un centrocampista. Dal Bologna arrivarono Caporale e Pecci. Del calcio olandese Radice aveva preso quello che gli sembrava essenziale: il pressing e la difesa alta. «Ma Pulici e Graziani andavano a pressare quelli coi piedi meno buoni, Morini e Gentile per dire. Se il pallone l’aveva Scirea - dice Pecci - niente pressing. Non era una zona pura, Caporale giocava staccato, ma più avanti degli altri liberi. Squadra corta e determinata nelle ripartenze, si direbbe oggi. Ma con quei due diavoli là davanti e i cross di Claudio Sala era facile giocare. Eravamo molto legati tra noi, e Gigi sapeva come farci dare il massimo». Anche fuori campo: aveva organizzato corsi di inglese e allestito una piccola biblioteca ad uso dei giocatori. Chi volesse leggere l’Antologia di Spoon River o Se questo è un uomo, li trovava.
Lo scudetto non poterono goderselo sul campo tre colonne granata: Cereser, Ferrini e Agroppi. Ma fu festa per tutti, quello scudetto. L’anno successivo, sommando 5 punti in più (50) la grande delusione: uno meno della Juve. Qualche frase di Radice, per farlo conoscere meglio: «Se il calcio non è anche scuola di vita, non è niente». «Non mi vergogno a dire che sono di sinistra, tra socialista e comunista: e con ciò? Proprio per questo ho elaborato una visione del calcio e della società». «Falcao è stato un po’ troppo mitizzato.
Sento dire in tv che i giocatori della Roma sono tutti portati per mano da Falcao. Balle. È uno come gli altri e io tra Falcao e Di Bartolomei mi prendo il nostro».
In un’intervista al Giornale, tre anni fa, suo figlio Ruggero rese pubblica una triste notizia, che nel giro sapevamo da tempo: un Alzheimer molto aggressivo si stava divorando suo padre. Non potevano più tenerlo in casa, da tempo era ricoverato in una clinica di Monza. Ai giocatori di quel Toro più assidui nell’andarlo a visitare la famiglia aveva detto che era inutile, ormai non riconosceva più nessuno. Quinto Chionetti, patriarca del Dolcetto di Dogliani, nei suoi ultimi giorni diceva: «La gente non ci giudicherà da quel che abbiamo raccolto, ma da quel che abbiamo seminato». Nel calcio forse un po’ meno, ma va pur detto che, un po’ prima di Sacchi, Gigi Radice aveva cambiato qualcosa nel calcio italiano, e non sono tanti ad averlo fatto. Gli sia lieve la terra.
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Gigi Garanzini per La Stampa
Altro minuto di silenzio. Con un groppo in gola grande così. Chissà dove stava scritto che sarebbe stato il ’18 a portarsi via gli ultimi, lontani ricordi dei bei tempi granata. Sauro Tomà, unico superstite della tragedia sulla collina, e uno dopo l’altro i tre allenatori granata più amati del dopo-Superga: a marzo Mondonico, in agosto Giagnoni, adesso Radice, el mas grande senza offesa per nessuno. Il biondino brianzolo che sbarcò al Filadelfia nell’estate del ’75 con le sue giacche impeccabili, il trench d’ordinanza, la voce sempre impostata sull’ottava superiore. E quegli occhi di ghiaccio che ti puntavano, ehi ragazzo, giocatore o cronista che fossi: un approccio di affettuosa e insieme autoironica arroganza, che trasmetteva energia positiva. Radice fece di quel Toro, che l’anno prima bestemmiava calcio con Graziani ala destra e Claudio Sala centravanti, la squadra di gran lunga più moderna del suo tempo. Di rigorosa vocazione offensiva, pensata e costruita per pressare e raddoppiare in ogni zona del campo secondo la grande lezione olandese che Gigi per primo aveva mandato a memoria, e Giovanni Arpino condensò come accade ai più grandi in una sola parola. Tremendismo.
Già qualche mese più tardi, fiutando l’aria della volta buona, sui gradoni del tempio consacrato al Grande Torino, erano in migliaia a darsi appuntamento per la partitella del giovedì. Conclusa la quale cominciavano i fuochi d’artificio: da destra crossava Claudio, da sinistra lui, col suo mancino che ancora il pallone lo faceva schioccare, e a bombardare al volo Castellini, rigorosamente da fuori area, provvedevano Pulici, Graziani e Zaccarelli. Vinto quello scudetto, il sergente di ferro perfezionò ancora il congegno tanto che il Toro l’anno dopo salì da 45 a 50 punti: non bastarono, la Juve del vecchio amico Trap, sbarcato nel frattempo a Torino, ne fece 51. Dei suoi trent’anni di panchina, inaugurati e conclusi al Monza, Radice ne ha trascorsi 10 su quella granata. Dal ’75 all’80 e poi dall’84 all’89. Ma in mezzo ci fu quel dramma a far da spartiacque tra la grande ascesa, Cesena-Fiorentina-Cagliari culminata nello scudetto granata, e la lunga fase discendente interrotta dal secondo posto alle spalle del Verona ’85.
L’incidente in auto
Era il 17 aprile del ’79, quando all’imbocco della galleria di Andora la sua Lancia fu travolta da un Tir. Ne uscì vivo per miracolo, a differenza di Paolone Barison che da qualche mese gli faceva da secondo. Ma per temprato che fosse il suo carattere, e lo era nell’acciaio, le cicatrici visibili con cui imparò a convivere erano poca cosa rispetto a quelle che lo segnarono dentro. Compreso l’esonero dal Toro l’anno successivo, perché si sa che la gratitudine non è di questo mondo. Passò per Milano, sull’una e sull’altra sponda, Roma, Bologna, Cagliari, Genova rossoblu. Tornò anche a Firenze, dove gli toccò una miserabile piazzata di Cecchi Gori: erano giusto gli anni in cui la maionese cominciava ad impazzire. Fu più o meno allora, in una stagione che segnava l’inevitabile passaggio verso la terza età, che Gigi scelse di rimettersi nella cesta. Era la sua gag preferita, quando gli pareva che qualcuno si stesse allargando: ragazzo, stai nella cesta.
Domani la sua partita
Decise, un po’ alla volta, di infilarcisi lui, scoprendo che dentro c’erano gli affetti familiari troppo a lungo trascurati, i bei ricordi, i vecchi amici. Anche la ferita antica di quel ginocchio ballerino che gli aveva troncato troppo presto una carriera milanista ricca di tre scudetti e una Coppa dei Campioni. Si rifugiò nel suo amato parco di Monza, corsetta quotidiana, sempre a petto in fuori, alternata alla bicicletta: e la decisione irrevocabile di non più apparire, di tenersi alla larga da ogni tentazione di reducismo, perché non si è mai tedeschi per caso. Sino all’ultimo agguato del destino, che da anni ormai lo aveva trasportato in un osceno mondo di mezzo. Addio ragazzo. Da ore mi sto consumando gli occhi su una vecchia foto in cui eravamo giovani e felici. Domani a San Siro la gente del Toro abbrunerà le sue bandiere per quella che non poteva non essere la tua partita del cuore.
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Roberto De Ponti per il Corriere della SeraBaciato sulla testa bionda dal sole di metà maggio, circondato da giocatori che si abbracciavano, piangevano e festeggiavano, acclamato da uno stadio che ancora non riusciva a credere che quel giorno fosse finalmente arrivato, inseguito da Paolo Frajese che in diretta tv gli chiedeva come ci si sentisse dopo aver regalato lo scudetto al Toro al termine di un’attesa lunga 27 anni, Gigi Radice non trovò di meglio che prendersela con Mozzini: «Peccato per quell’autogol, potevamo fare il record di vittorie in casa». «Ma avete vinto lo scudetto, che ti importa?», lo incalzò Frajese.
In piena trance agonistica, l’allenatore del Torino non si era ancora ben reso conto di quello che aveva appena combinato. Lo capì quando i giocatori lo portarono in trionfo. Fra la commozione della gente del Comunale, rimasta in tribuna per godersi fino all’ultima stilla quel momento indimenticabile. 16 maggio 1976.
Di quel momento, del «suo» momento, Gigi Radice da tempo non ricordava più nulla. Alzheimer, malattia che ti svuota da dentro e che ieri si è portato via, a 83 anni, l’allenatore più amato del Toro. Se n’era andato da tempo, «l’uomo dagli occhi di ghiaccio», il «tedesco», il «biondo», da quel giorno in cui l’amata Nerina chiese agli amici di non passare più a trovarlo. Non voleva che vedessero il suo Gigi così, imprigionato da un male crudele. Lui non lo avrebbe mai accettato. E alla fine, se anche non avessero ascoltato la sua implorazione, lui non li avrebbe comunque riconosciuti. Un lento addio triste, per un uomo che senza grandi proclami, come si conviene a un brianzolo ruvido, ha cambiato la storia del calcio italiano. Un rivoluzionario.
Ottimo difensore, da terzino del Milan vinse quanto pochi possono permettersi in una carriera: 3 scudetti e la Coppa Campioni del 1963. Perseguitato dagli infortuni, ad appena 30 anni decise di fare altro, basta con il calcio giocato, il Monza gli offrì una panchina in C. Lui prima vinse il campionato («quello era il mio Real Madrid»), poi l’anno successivo conquistò la salvezza in B. Era di sinistra, dichiaratamente, Radice, e non si vergognava ad applicare al calcio i suoi principi: il collettivo, prima di tutto. Erano gli anni di Cruyff e dell’Arancia Meccanica, gli anni del calcio all’olandese, della Nazionale bella e perdente ai Mondiali del ’74. In Italia divennero gli anni del Toro rivoluzionario, Radice venne chiamato a Torino da Orfeo Pianelli, affascinato da quel tipo che aveva fatto apprendistato a Cesena, Firenze e Cagliari.
Pulici
È stato un maestro, un papà. Mi ha aiutato
a essere più di un buon
giocatore, mi ha fatto diventare uomo fuori
dal campo
Nacque il Toro dello scudetto, dei gemelli del gol, Pulici e Graziani, del poeta Claudio Sala, del giaguaro Castellini, di piedone Pecci, di Zaccarelli, di Santin e Salvadori, gli olandesi di Eraclea e Magenta. Ma se chiedevate a Radice, quello era il Toro di Caporale e Patrizio Sala, i due gregari che gli permisero di giocare come nessuno mai in Italia.
Quel Torino probabilmente raccolse meno di quanto avrebbe meritato. La Juventus corse ai ripari e ingaggiò l’altro «milanese» Giovanni Trapattoni (tra Cesano Maderno e Cusano Milanino ci sono 10 chilometri scarsi). Il Trap, più giovane di 4 anni, era un quasi debuttante, sì, ma alla guida di una squadra fortissima. Il Torino riuscì nella sfortunata impresa di perdere il titolo conquistando 50 punti su 60. E la magia lentamente svanì.
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Giovanni Battistuzzi per Il Foglio
Nereo Rocco diceva di lui che aveva "l’intelligenza giusta per poter leggere il campo come fosse un libro". Diceva anche che aveva "pure la curiosità e il carattere giusto per poter insegnare il calcio". Faceva ancora il calciatore, terzino sinistro, quando il Paron disse questo. Lo stava allenando a Padova e, quando dal Veneto raggiunse la Milano rossonera lo volle con sé. Un ritorno a casa. Luigi Radice era cresciuto nel Milan, per i rossoneri aveva giocato per qualche anno con poca fortuna, poi aveva raggiunto Trieste e i biancoscudati in prestito. "Non avessi trovato Rocco probabilmente non sarei ritornato al Milan, probabilmente non avrei fatto l’allenatore". E sarebbe stato un peccato. Perché Gigi Radice, che è morto oggi all’età di 83 anni, è stato per buona parte della sua carriera uno dei migliori allenatori che il nostro campionato ha avuto tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.
Si sedette su di una panchina appena trentenne, vagò per la provincia profonda del calcio italiano per un po’, perché "è giusto così, serve gavetta per capire come si deve schierare una squadra". Monza, Treviso, ancora Monza, Cesena prima di approdare in serie A a Firenze. Un anno, molte buone idee in una stagione appena discreta. Il primo tentativo di importare in Italia il metodo olandese, quel calcio a tutto campo, a tutto pressing che rivoluzionò il mondo del pallone. Finì male, con un divorzio consensuale. Radice passò per Cagliari una mezza stagione: "Il tempo per mettermi alla prova e riflettere". Il tempo per maturare ciò che non andava del suo modo di intendere il calcio. A causa anche di un Gigi Riva perennemente infortunato si rinnovò, cambiò identità e filosofia, capì che le individualità servono solamente se sono inserite in un collettivo che si sacrifica in modo totale per una causa.
La sua causa divenne il Torino.
Al Toro arrivò in sordina, divenne grande, amato, un simbolo. Quello di uno scudetto che sembrava non poter più arrivare dopo Superga. Arrivò nella stagione 1975/1976 la prima alla guida dei granata.
"Avevamo animo, forza e mentalità vincente. Andavamo in campo per imporre il nostro gioco, contro tutti. Ci siamo quasi sempre riusciti, spinti anche dalla forza e dall’immensa eccitazione della città. L’hanno detto e scritto più volte: abbiamo fatto resuscitare il Grande Torino. Si sentiva, si avvertiva, in città, un’atmosfera cupa, pesante. Dicevano che Torino dopo la terribile sciagura di Superga aveva vissuto giorni di inguaribile rimpianto. Vero, ma mai di rassegnazione. Mai. Ed era questa voglia, questo dinamismo a darci la carica. Il Torino voleva diventare grande, era scritto. Lo è diventato, superando un’avversaria, la Juve di Parola, forte, organizzata", disse.
Era quello il Toro del "tremendismo" granata, quello che davanti schierava i gemelli del gol Pulici e Graziani, che sulla fascia recitava il poeta Claudio Sala, che in porta osservava i tuffi di Castellini, e aveva a centrocampo i muscoli e il cervello di Pecci e Zaccarelli. Era il Toro che "più bello non si può", almeno per Mario Soldati, perché "raccoglieva in undici uomini un animo unico, un senso di rivolta al fato e che giocava come fosse una danza tribale, indomita e sensuale".
Dopo quella stagione perfetta ne seguirono due che lo furono quasi altrettanto. Il Torino finì prima secondo, poi terzo.
Fu esonerato nel febbraio del 1980. Ritornò nell’estate del 1984, dopo aver allenato Bologna, Milan, Bari e Inter, perché un amore è duro da dimenticare. Fu ancora un gran bel Toro. Furono ancora anni felici. Non arrivò lo scudetto, fu al massimo un quarto di finale in Coppa Uefa.
Al suo addio nel dicembre del 1988 disse che "lascio Torino, ma il Toro non lo lascerò mai". La tifoseria ha fatto lo stesso, non l’ha mai dimenticato.