Corriere della Sera, 8 dicembre 2018
I voti alla Prima della Scala
Il successo è meritato. Attila non diventa un capolavoro da oggi ma, così rappresentato, conferma una volta per tutte di non essere quel titolo minore che per decenni critica e musicologia hanno suggerito. È disuguale poiché alterna pagine stupende ad altre più grezze o corrive. Ma quelle migliori, sono belle per davvero: forti, appassionate, vibranti, piene di verità teatrale.
La scommessa della Scala può dunque dirsi vinta. Maturità ed esperienza suggeriscono a Riccardo Chailly, artefice entusiastico di questa scelta, di non cadere nella tentazione del registro «muscolare» che, di fronte a personaggi del genere, sarebbe comprensibile. Chailly invece si smarca fin dalle prime battute del Preludio da quelle letture garibaldine, tutte d’un fiato, che pure in passato han prodotto risultati lusinghieri. Scompone, separa, concerta ogni segmento come cosa a sé. E se in certi momenti la scelta dei tempi sembra molto prudente – una per tutte, la Scena e Cavatina di Odabella nel primo atto – è pur vero che le tessere del mosaico si ricompongono con una logica sicura, in virtù soprattutto del rilievo e del mordente degli accompagnamenti orchestrali.
Tale lavoro di concertazione produce risultati lusinghieri anche sul fronte della vocalità, indipendentemente dall’alto valore dei singoli contributi. Dell’Attila di Ildar Abdrazakov emerge così non solo la regalità possente ma anche la fragilità, seppur nascosta nella piega più minuta del suo cappottone nibelungico. La sua Cavatina «del sogno» – vertice di quest’opera – è un momento di pura emozione. E se l’Odabella di Saioa Hernández non passa con lode la difficilissima sortita (troppa emozione?), recupera man mano nel declamato la disinvoltura dell’eroina che sa riconoscere la statura del nemico perché consapevole della propria. Personaggi meno tratteggiati sono quelli dell’innamorato Foresto e del «politico» Ezio. Ma anche per Fabio Sartori e George Petean gli applausi sono giustamente calorosi. Il baritono, in particolare è capace di frasi d’un vellutato che non passano inosservate, mentre il tenore offre una gamma di colori non trascurabile, anche più ampia di quanto richieda il personaggio.
Raccontata, illustrativa è infine la messinscena di Davide Livermore. Qualcuno lamenta vi siano «troppe note», come se il regista sentisse una sorta di horror vacui. Ma forse l’unico difetto consiste in un’omissione. Non è difficile rispondere, cioè, alla domanda se Odabella sia più attratta dall’eroe nobile e puro che non conosce la paura o da quel lagnoso del suo fidanzato. Ma questa domanda il regista sembra non porsela. È un peccato. Nondimeno, lo spettacolo è magnifico. Sotto quei cieli lividi, sotto quelle rovine di ponti-archi-palazzi sventrati l’azione scorre fluida e coerente. L’uso dei video è sobrio e intelligente. La citazione della tela di Raffaello nella scena del sogno di Attila è magistrale. Nel divenire di questa messinscena si sente vieppiù opprimente il destino che grava non tanto e non solo sui personaggi dell’azione ma anche e soprattutto sulla storia. Ed è esattamente questo l’aspetto che chiarisce come il finale, nonostante la morte dell’invasore, sia tutto fuorché un lieto fine. Superba infine la qualità della prova del Coro, istruito come sempre da Bruno Casoni.