Corriere della Sera, 8 dicembre 2018
Se parte l’infrazione l’Italia avrà sei mesi
Sarà un segno dei tempi del populismo, ma alcuni degli investitori più sofisticati hanno smesso di valutare l’Italia sulla base dei calcoli razionali. Capire gli interessi economici degli attori in gioco non basta più. Ora chi mette a rischio decine di milioni per volta sul Paese, cerca anche di immaginare gli stati emotivi dei suoi due leader: gli operatori vogliono sapere come ragionano Luigi Di Maio e Matteo Salvini, cosa temono i due vicepremier, cosa li manda fuori di sé.
Su questa base, per ora non appare molto probabile che venga evitato l’avvio della procedura europea contro l’Italia sul deficit e sul debito. La distanza minima che la Commissione Ue chiede al governo di percorrere per trovare un compromesso sarebbe una riduzione dei programmi di spesa – certa, nitida, permanente – di otto miliardi. Molti ministri nell’area euro e vari commissari Ue in realtà vorrebbero dieci e oltre. Nel migliore dei casi si tratterebbe almeno di dimezzare l’impatto delle promesse da parte di Salvini e soprattutto di Di Maio: i pensionamenti (in teoria) a 62 anni e 38 di contributi e il «reddito di cittadinanza».
Il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker tiene a un accordo, ma non può accettare da Roma concessioni talmente piccole e incerte da risultare umilianti per lui. Ancora meno in queste settimane, mentre l’area euro sta discutendo la propria riforma istituzionale. Se proprio ora la Commissione Ue perdesse la faccia di fronte a un’Italia dichiaratamente euroscettica, sarebbero più forti le voci di chi a Berlino o all’Aia vuole spostare la vigilanza di bilancio verso il fondo salvataggi (Esm). Quest’ultimo è controllato dai governi e sulla carta più inflessibile.
Esiste dunque un limite a quanto Juncker possa tendere la mano a Salvini e Di Maio. Ma questi ultimi senz’altro vedono a loro volta come un’umiliazione cedere in pieno a Bruxelles proprio ora che in Francia sono forti i «gilets jaunes», un movimento vicino alle loro sensibilità. Per gestire l’emergenza il presidente Emmanuel Macron potrebbe portare il deficit di Parigi al limite del 3% del prodotto lordo. Salvini e Di Maio non sono pronti a piegarsi a Bruxelles pur di evitare una reprimenda, proprio mentre il loro nemico politico in Europa fa salire il disavanzo più di loro (e magari evita la procedura).
L’accordo fra Bruxelles e Roma dunque magari ci sarà – le distanze non sono enormi – ma per ora mancano alcuni ingredienti necessari. Se poi partisse la procedura, avrebbe almeno un elemento di elasticità: la Commissione darebbe all’Italia sei mesi a partire da gennaio (o febbraio), prima di mandare una missione d’ispezione a Roma per vedere se il governo ha seguito le raccomandazioni. Non è lo smantellamento di buona parte delle misure su pensioni e reddito, che il ministro dell’Economia Giovanni Tria vorrebbe come segnale di impegno dell’Italia a un futuro nell’euro. Ma sempre meglio di nulla.