Corriere della Sera, 7 dicembre 2018
La grande frenata delle Borse che rende più fragile l’Italia
Ha pronunciato la parola. Per esorcizzarla, ma l’ha fatto e ora quel concetto resterà ancora di più impresso nelle menti. Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, è andata al cuore dei timori degli investitori cercando di dire qualcosa di rassicurante al termine di una giornata che non lo è stata: «Non vedo elementi di una recessione nel breve termine», ha osservato l’ex avvocatessa d’affari ed ex ministra delle Finanze francese che guida l’Fmi. Ma lei stessa non deve sentirsi sicura sulle prospettive degli Stati Uniti e dell’economia internazionale, perché ha aggiunto: «Mi aspetto che la Federal Reserve rallenti il passo del rialzo dei tassi».
Anche questo è un concetto che né Lagarde né altri – se non il presidente degli Stati Uniti Donald Trump – avevano ancora osato esprimere. Ora però il nervosismo cambia anche la retorica dei responsabili politici. Da inizio ottobre l’S&P 500 di New York ha bruciato più di 1.200 miliardi di dollari, il Nasdaq quasi altri mille e lo Eurostoxx 600 – l’indice europeo più ampio – circa altrettanto dopo aver registrato ieri la peggiore caduta dai giorni del referendum sulla Brexit di due anni e mezzo fa. Quando al Dax tedesco, il principale indice di Borsa della più solida economia europea, quest’anno ha perso un quinto del valore per colpa delle grandi banche sempre troppo fragili e del settore auto minacciato dai venti di guerra commerciale di Trump.
L’innesco, anche ieri, è stato proprio di quest’ultimo tipo: l’arresto di Meng Wanzhou, figlia del fondatore della cinese Huawei Ren Zhengfei, ha ricordato quanto in realtà sia provvisoria la pausa nella sfida dei dazi fra Trump e il leader di Pechino Xi Jinping. Ma la scintilla di giornata ha trovato un terreno reso infiammabile dall’incertezza degli investitori. I motivi di fondo sono gli stessi ai quali proprio ieri ha accennato Christine Lagarde: pur muovendosi con gradualità e partendo da zero, la Fed ha già alzato i tassi sei volte dal 2015 e soprattutto ora sta restringendo il suo bilancio al ritmo di 50 miliardi al mese. A gennaio la Banca centrale europea smetterà di creare sempre nuova moneta in più con gli acquisti di mercato del «quantitative easing», mentre anche la Banca del Giappone va verso un graduale rallentamento degli interventi.
Lagarde (Fmi)
«Non vedo elementi di recessione ma mi aspetto che la Fed rallenti sul rialzo tassi»
Dopo un decennio nel quale i bilanci delle grandi banche centrali erano cresciuti in aggregato da meno di 10 mila e oltre 25 mila miliardi di dollari – fino a un terzo del prodotto lordo di del mondo – ormai è iniziata la grande ritirata. L’abbondanza di moneta garantita a costo zero sui mercati dalla Fed, dalla Bce, dalla Banca d’Inghilterra e da quella del Giappone, aveva spinto gli investitori ad affrontare sempre maggiori scommesse a caccia di rendimenti. Ma ora appunto la Fed sta restringendo al ritmo annuale di 600 miliardi di dollari e la Bce potrebbe seguirla sulla stessa strada, anche se non molto presto.
Come si vede anche dalle tensioni sul debito italiano, le banche centrali hanno smesso di attutire tutti i rischi e anestetizzare le febbri. E nel sistema internazionale febbri e rischi sono visibili in molti angoli. Secondo dati Bloomberg, gli investimenti azionari a debito alla Borsa di New York sono saliti da meno di duecento a oltre seicento miliardi di dollari nell’ultimo decennio. Nel 2017 i riacquisti di azioni nelle società quotate americane per premiare soci e manager hanno superato la cassa prodotta, cioè sono stati fatti a debito. Bitcoin, una criptomoneta priva di valore intrinseco, è esplosa in un anno da un valore totale di mercato di 13 a 330 miliardi, per poi crollare a circa 60 (e si sgonfierà ancora). In Cina il teorico valore di mercato degli immobili, finanziati a forza dalle banche, è salito fino a 360% del prodotto lordo – quasi il doppio che in Italia, Francia o Stati Uniti – ma moltissimi sono sfitti e di fatto invendibili. La liquidità delle banche centrali aveva sommerso tutti gli scogli, alzato tutte le barche, ma non più.
La guerra commerciale e tecnologico e le tensioni geopolitiche fra Stati Uniti e Cina arriva nel pieno di questa difficile transizione. Ne risentono in primo luogo le economie più dipendenti dall’export e dal sostegno delle banche centrali: da dicembre scorso il ritmo di crescita annuale dell’area euro è caduto di più dell’uno per cento. Il 2019 presenta incertezze anche per gli Stati Uniti, perché calerà l’effetto di doping nei tagli di tasse a deficit di Trump. L’economia mondiale non starà entrando in recessione – come assicura Lagarde – ma rallenta e un anello debole come l’Italia non può che risentirne. Gli investitori internazionali saranno ancora più riluttanti a arrischiarsi su un Paese che presenta un bilancio pubblico senza bussola né logica economica. Certo l’Italia resta una mina vagante per tutti, anche perché le banche estere a metà 2018 vi erano ancora esposte per 788 miliardi di dollari. Ma minacciare di farsi saltare in aria non è mai stata la strategia ideale per incoraggiare qualcuno a darvi una mano.