Il Messaggero, 6 dicembre 2018
Intervista ad Abraham Yehoshua
Nell’incipit del suo ultimo ultimo romanzo, Il tunnel (Einaudi, 339 pagine, 20 euro), Abraham Yehoshua, ieri ospite d’eccezione alla fiera Più libri più liberi, pone il protagonista, l’ingegnere di settant’anni Zvi Luria, dinnanzi all’evidenza senza apparente rimedio della demenza senile.
«Abbiamo rilevato un’atrofia del lobo frontale, che potrebbe suggerire una lieve degenerazione neuronale», sostiene il neurologo. Zvi però non è solo. C’è la moglie Dina, una pediatra affermata, la cui figura è ispirata a Ika, la moglie dello scrittore israeliano, scomparsa due anni fa durante la stesura del romanzo. Dina tenta subito di stimolare una reazione nell’amore di una vita. Convince Assael Maimoni, che ha preso il posto del marito nel settore dei lavori pubblici, a tenere Zvi come assistente. Maimoni sta lavorando a un tunnel segreto, che trascina il lettore nel cuore del conflitto israelo-palestinese e nella dimensione politica delle opere di Yehoshua.
Yehoshua, come si danza sul confine tra malattia e vita?
«Quando Zvi Luria scopre il principio della malattia, la moglie gli dice di combattere. Lui appare spiazzato. Lei sostiene che è necessario ascoltare l’anima, lottando anche contro il cervello perché non sono la stessa cosa. Nelle prime pagine costruisco le fondamenta del romanzo, che non sprofonda nell’oscurità di una malattia. Nel declino si manifestano anche la libertà e l’opportunità di conoscenza, affidandosi all’ironia. Poi il medico suggerisce di non smettere di fare l’amore e di lavorare seppure l’età sia avanzata».
È interessante l’ambientazione scelta.
«La gran parte dell’azione si concentra nel deserto del Negev, che considero molto importante. Anche l’ambientazione per me è una scelta politica. L’abbiamo abbandonato, investendo i soldi per gli insediamenti altrove e dimenticando la lezione di Ben Gurion, padre dello Stato, che ne rivendicava la potenzialità e fu seppellito nel Negev».
La malattia di Zvi è anche un modo per raccontare altro?
«Sì, non è solo una questione privata. La malattia è anche il simbolo della relazione paradossale tra israeliani e palestinesi, che in ospedale s’incontrano e viene meno il peso dell’identità. Medici, infermieri e sanitari non dichiarano la propria appartenenza e per mestiere cercano di curare e salvare la vita dell’altro. Nella malattia la relazione assume le necessità fondamentali, che trascendono qualsiasi credo in nome dell’umanità».
Il romanzo racconta l’ambivalenza della memoria. Ritiene stia diventando una sorta di gabbia?
«Sì, nel modo in cui la utilizziamo, anche in Israele, è un fattore rischioso. La memoria dell’Olocausto e di una sofferenza incommensurabile non ci dà il permesso di non riconoscere la misura del dolore degli altri. L’immane catastrofe della Shoah non declassa le altre e non ci garantisce un certificato morale. Al contempo i palestinesi con la costante rivendicazione della Nakba e del ritorno a casa, dimostrano di non voler guardare oltre il passato. Queste memorie negative s’impossessano dell’identità, che diventa l’unica ideologia politica. Vuota».
Qual è l’esito di tale politica sul lungo periodo?
«Comporterà la scomparsa della solidarietà. La rivendicazione di identità e di origini presunte costruisce barriere. Ciascuno si barrica nel proprio gruppo sociale, paralizzando lo sviluppo del paese».
Quest’anno ricorrono i settant’anni dello Stato d’Israele. Che cosa ne pensa della legge recente che lo definisce come Stato-nazione del popolo ebraico?
«Innanzitutto non accetto di chiamarlo Stato ebraico, ma è lo Stato d’Israele che dalle origini corrisponde al nome del popolo ebraico. Noi siamo israeliani. In Israele come in Italia c’è differenza tra cittadinanza e identità. In Israele c’è l’identità degli ebrei, ma anche la cittadinanza degli arabi che equivale al riconoscimento di diritti. Un giudice non ebreo ha condannato un nostro presidente a sette anni di prigione. Un druso è al comando di una divisione militare. Un medico palestinese è un direttore di ospedale. Abbiamo diplomatici arabi. Il paese deve continuare a garantire le differenze».
In questa stagione scrivere per lei resta anche un atto politico?
«Intanto direi che sono stato un marito, padre e nonno. Sono soprattutto un cittadino coinvolto nelle questioni politiche del mio paese. Non ho mai esitato nell’esprimere il mio pensiero, usando la mia reputazione di scrittore. Le mie idee sono emerse anche nei libri. L’ho fatto anche in quest’ultimo romanzo con la rottura dell’identità che condiziona la convivenza».
In quale modo si è trasformato il ruolo dello scrittore e il rapporto col potere nella società israeliana?
«Se dovessi scegliere di diventare uno scrittore oggi, probabilmente lo eviterei. La vita del libro in libreria è ormai brevissima. I titoli svaniscono dopo poche settimane. C’è più gente che scrive di quanta effettivamente legga. Le università pullulano di workshop sulla scrittura creativa. Pubblicare sembra ormai una cosa scontata. Apprezzo un certo ritorno alla poesia, che per me è stata la strada maestra verso la prosa. Alla fine degli anni Cinquanta la poesia ha aiutato a definire la mia lingua di autore. Quando prendevamo posizione durante la Guerra dei sei giorni eravamo rilevanti, poiché avevamo un’area politica di riferimento. Negli ultimi trent’anni il fronte laburista si è progressivamente sgretolato».
Avverte come una sconfitta della sua generazione il mancato raggiungimento della pace arabo-israeliana?
«La pace con l’Egitto è stata una grande conquista. Resta la questione palestinese. Nei fallimenti anche loro hanno la propria parte di responsabilità. Gli israeliani proseguono con gli insediamenti, i palestinesi hanno mancato l’occasione di Camp David. Credo che la soluzione dei due popoli, due Stati ormai sia impraticabile. E lo dico con profonda sofferenza, perché è un’idea che ho sostenuto per decenni. Resta l’alternativa di uno stato binazionale in un’ottica di federazione».
Nella sua vita che cosa ha rappresentato la frontiera?
«Il concetto di confine per gli ebrei è stato storicamente labile. L’ebreo è ovunque e da nessuna parte, un figlio della diaspora. Ho sentito la necessità intima di una frontiera entro la quale ricostruire il gene di una madrepatria, l’idea di un attaccamento alla terra che è il primo elemento di ogni nazionalità. Non si può essere italiani senza l’Italia. La questione non è la misura e l’estensione di un territorio, ma la sua esistenza».