La Stampa, 6 dicembre 2018
L’Attila raccontato da Chailly
Che la prima della Scala sia un flagello di Dio non c’è dubbio, per chi la fa e per chi la racconta. Quest’anno di più perché tocca ad Attila, un Verdi «di galera», annata 1846, ampiamente rivalutato da quando Massimo Mila lo elencava fra le opere «brutte» del Nostro (ma per favore smettiamola di parlarne come di chissà quale rarità, negli ultimi anni lo si è visto dappertutto).
Tant’è: domani seratona musical-mondana-televisiva, con diretta su Rai 1 dalle 17.45, spettacolo firmato dal regista torinese e torinista Davide Livermore, in sala Sergio Mattarella alla sua prima «prima» da Presidente, in scena Ildar Abdrazakov (Attila), Saioa Hernández (Odabella), Fabio Sartori (Foresto) e George Petean (Ezio). Sul podio, naturalmente, Riccardo Chailly, direttore musicale della Scala.
Maestro Chailly, «Attila» vale una prima?
«La risposta è già nella scelta: certamente. Da quando, due anni fa, inaugurammo con Giovanna d’Arco, la decisione di fare Attila si è imposta per comporre un trittico del Verdi giovane il cui terzo pannello sarà Macbeth. Senza Attila, Macbeth sarebbe stato impossibile, anzi impensabile: uno è complementare all’altro, e nella partitura di Attila ho trovato almeno sette chiarissime anticipazioni di Macbeth».
Che quindi riporterà alla Scala.
«Quando avremo il cast giusto, certo».
Torniamo ad «Attila». Dal punto di vista dell’esecuzione, il Verdi «di galera» è sempre problematico.
«Preferisco chiamarlo Verdi giovane. Io trovo importante sottolineare in Attila le conquiste verdiane. Ci sono in quest’opera tre diverse sonorità: quella militare, quella ecclesiastica e quella del soprannaturale, che è forse la più affascinante. Per usare una parola verdiana, è una “tinta” sinfonica scura e cupa che si sente nel Preludio la novità rivelatrice di Attila, uno dei suoi aspetti più introspettivi e meno esteriori che, una volta di più, anticipa Macbeth».
Ci saranno due novità testuali: le ormai celebri cinque battute scritte da Rossini per introdurre il terzetto dell’ultimo atto e la romanza alternativa scritta da Verdi per il tenore Napoleone Moriani quando l’opera debuttò alla Scala. Perché?
«Le cinque battute di Rossini sono magnifiche, aprono uno squarcio armonico con una discrezione ma un’efficacia straordinarie. L’autografo si trova al Museo teatrale della Scala e mi sembrava giusto farle ascoltare. Quanto alla romanza di Moriani, la preferisco a quella originale per la bellezza della melodia e le sorprese armoniche dell’accompagnamento dell’arpa, che anticipa il terzetto famoso. Un brano che amo fin da quando, qui alla Scala, lo incisero Abbado e Pavarotti».
Cosa dice dell’aspetto politico di «Attila»? In fin dei conti, in quest’opera presunta risorgimentale gli italiani fanno una pessima figura.
«L’aspetto politico dell’opera è quello che mi interessa di meno. A me affascina la debolezza di Attila, l’invasore feroce, il flagello di Dio, che però è pieno di insicurezze, di paure e anche di un amore sincero e alla fine tradito. È l’unica di tutte le opere di Verdi dove c’è un omicidio per mano di donna. Poi, certo, c’è anche la politica, con il generale romano Ezio che, come ha scritto qualcuno, non è un eroe risorgimentale ma una specie di Badoglio. Questo aspetto è centrale nella regia di Davide Livermore, però per me è più importante quello psicologico, interiore dei personaggi e specie del protagonista».
Che muore in una maniera singolarmente scabra.
«“E tu pure, Odabella!”, canta alla donna che ama e che lo uccide, una specie di “Anche tu Bruto!”. Faccio precedere quella frase da una lunga pausa. E poi allargo al massimo il tempo, una dilatazione che Verdi non ha scritto ma che forse avrebbe voluto per fare risaltare queste parole con forza».
Intanto lei festeggia contemporaneamente i quarant’anni alla Scala e i quaranta come artista discografico per la Decca. Ricordi?
«I primi che mi vengono in mente? Due telefonate. Prima, quella di Claudio Abbado. Ero a Palermo a dirigere L’angelo di fuoco. Mi chiamò Claudio: prendi il primo aereo, ti aspettiamo. E così debuttai alla Scala con I masnadieri: per fortuna avevo diretto l’opera poco prima a Montepulciano e, assistente di Abbado, conoscevo benissimo i musicisti della Scala. L’altra telefonata fu quella di Pavarotti che mi chiese di dirigere il disco con una selezione del Guglielmo Tell di Rossini che poi diventò l’opera completa. E anche lì fu l’inizio di una storia, quella con Decca, che ancora dura».
Il 7 dicembre è un giorno speciale. Lei come lo vive? Riti propiziatori?
«Nessuno. È una giornata normale che si passa in casa, con la famiglia, nella quiete e nella concentrazione. Poi andrò in teatro presto, almeno un’ora prima, per dire in bocca al lupo a tutti. Il senso di responsabilità si sente, anche perché Attila andrà in diretta su Rai 1 e sarà visto da milioni di persone. Però nessuna ritualità: soltanto una totale concentrazione».