la Repubblica, 6 dicembre 2018
Sulla schiacciata nel basket
Superman è seduto nello spogliatoio del Madison, asciugamano azzurro attorno ai fianchi, ghiaccio sulle ginocchia. Scorre sul cellulare i messaggi Instagram. Poi appoggia le spalle all’armadietto, chiude gli occhi, e comincia a imprecare tra sé. Scuote la testa, e va avanti così per 20 minuti. Giannis Antetokounmpo, l’erede designato di LeBron, il campione a cui Shaquille O’Neal ha dato in eredità il soprannome di Superman, ha capito cosa lo aspetta d’ora in poi: la solitudine del supereroe, diviso tra adorazione del pubblico e odio degli avversari. Alto 2,11, apertura alare di 2,22, il greco realizza quasi cinque schiacciate a partita, 99 in 21 gare, 76 nelle prime sedici, 23 nelle ultime cinque. L’altra notte è andato in campo contro Detroit per superare quota 100, oggi compie 24 anni. Potrebbe frantumare ogni record Nba dal 2000 (anno in cui la schiacciata è entrata nelle statistiche): nella stagione 2007-2008 Dwight Howard ne mise a segno 269. Lui può arrivare a 350, forse 400. Ma quando gli viene chiesto cosa provi ogni volta che si alza in volo, risponde seccato: «Sono punti come gli altri». Non è vero, e lo sa.
Ogni azione è una potenziale schiacciata, quando parte in palleggio il pubblico trattiene il fiato, le difese si chiudono. È il momento in cui la partita può diventare show o crisi, spettacolo o scontro, seta o acciaio. Al Madison è successo da subito: il giocatore dei Knicks, Hezonja, schiaccia, butta a terra Giannis e gli cammina sopra, chiedendo al Madison un boato come in un moderno colosseo. Poco dopo, Giannis parte in palleggio, si alza in volo con la sua fatale simmetria e schiaccia. Atterrato, lancia un urlo alla Hulk, mostrando i muscoli. Il Madison risponde con un altro boato. No, la schiacciata non è un punto come gli altri. Vale più di due. Esalta e umilia. Frutta soldi. On line trovi a 20 dollari la maglia che i Bucks misero in commercio con l’immagine di Giannis che schiaccia seppellendo un avversario. «Quella maglietta è stata inopportuna», ammette adesso.
La stessa Nba non sa come gestirla: bombarda di schiacciate ogni spot, ma non le prevede nelle statistiche durante i match. Rispetto al primo specialista, Jack Inglis, che negli anni Dieci si appendeva al ferro come un trapezista e aspettava il pallone per schiacciarlo nella retina, la tecnica si è evoluta. Julius Erving usava il pallone come punto d’appoggio in aria facendolo oscillare come uno yo-yo; Vince Carter puntava a saltare sopra la testa dell’avversario; Michael Jordan, il più avanti di tutti, ne ha fatto un brand. Ma c’è stato un tempo in cui avevano messo in dubbio la grande bellezza. Fino alla stagione 76-77 schiacciare era vietato. Il divieto venne sancito nel ’67: costava la perdita di un punto e del possesso palla, poi si era passati al solo fallo tecnico.
Tentativo grossolano di limitare un giocatore di Ucla di 2,18, che schiacciava con irrisoria facilità: Lew Alcindor, poi diventato Kareem Abdul-Jabbar. Il basket sfiorò il grottesco: giocatori elefante che, arrivati sopra il ferro, lasciavano cadere il pallone leggeri come ballerini nel Lago dei Cigni. Poi arrivò David Thompson, centro di North Carolina: schiacciò, prese fallo tecnico e standing ovation allo stesso tempo. Capirono che il basket senza dunk era un film muto. Due anni dopo, il bando cadde, i giocatori tornarono a schiacciare e il pubblico a urlare. Prima bastava Space Jam con Bugs Bunny per arruolare Michael Jordan contro gli alieni e veder correre i bambini a schiacciare in cortile, ora si accende la tv e s’aspetta che Superman decida di alzarsi in volo.