6 dicembre 2018
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Biografia di Noam Chomsky
Noam Chomsky (Avram Noam C.), nato a Filadelfia il 7 dicembre 1928 (90 anni). Linguista. Filosofo. Scienziato cognitivista. Attivista politico. «Pioniere scientifico e guru radical, divo e paria, anarchico anticapitalista e borghese di rango, superpacifista e colluso di tiranni e ideologie sanguinarie, nume della mente e icona antiamericana, mandarino raffinato e bastonatore del demi-monde» (Giulio Meotti). «Qual è stata la sua prima parola? “Non lo so realmente. Ma non mi sorprenderebbe se fosse stata ‘no’”» (Luca Mastrantonio) • Figlio di una coppia di ebrei ashkenaziti nati in Europa orientale ed emigrati negli Stati Uniti per scampare ai pogrom. «Il padre William è stato un pioniere della lingua ebraica medievale, sfuggito all’arruolamento coatto della Russia zarista. Non si nominava Dio in casa Chomsky, sebbene si rispettasse lo shabbath e le leggi kosher sull’alimentazione. La storia di Chomsky è anche quella di un ripudio ebraico. La madre, arrivata direttamente da un villaggio lituano e nota insegnante di ebraico, fu autrice di libri per bambini su coraggiosi combattenti ebrei che sfidavano i terroristi arabi nella fondazione d’Israele» (Meotti). «Il padre e la madre di Chomsky erano ebrei in prima linea nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori, negli States. Ma erano anche persone che, in nome dell’utopia sionista, avevano bandito la loro lingua madre, lo yiddish, per optare invece per l’ebraico, l’idioma che (così pareva) doveva segnare la nascita di un ebreo nuovo, combattente e agricoltore e non più commerciante “privo di radici”» (Wlodek Goldkorn) • Quando nacque, a Filadelfia, «l’impiegato del Comune sbagliò a trascrivere il nome completo. Credeva che “Noam” fosse una variante di “Naomi”, nome femminile, così femminilizzò “Avram” in “Avrane”: “Sul mio certificato di nascita è scritto ‘Avrane Naomi Chomsky’”, racconta, “l’ho scoperto quando mi serviva una copia. Errori di trascrizione. D’altronde, uno dei motivi che m’ha appassionato alla linguistica fu la scoperta che la Bibbia era stata tradotta male, già dalla prima frase: non è ‘In principio Dio creò’, ma ‘Al principio della creazione era il caos’”. Alle elementari lei andò a vedere una partita tra i New York Yankees e i Philadelphia Athletics. Un evento che le rimase impresso. […] Era con un amico e un’insegnante a lei molto cara. “Sì. Eravamo tutti innamorati di lei, Miss Clark. Eravamo seduti ai posti più economici, sugli spalti proprio dietro Joe DiMaggio. Stavamo vincendo noi, poi gli Yankees hanno ribaltato il risultato. Era strano, perché noi tifavamo Philadelphia, ma vedere da vicino Joe DiMaggio e Lou Gehrig ci dava eccitazione, quasi meglio di una vittoria. La delusione arrivò qualche mese dopo: Miss Clark sposò l’insegnante di arte”. Altro microtrauma dell’infanzia, […] la nascita di suo fratello minore, David. Com’era il vostro rapporto da piccoli? “Pieno di scetticismo, da parte mia, anche se poi siamo diventati grandi compagni di giochi. Il problema è che gli adulti ti creano aspettative, e tu non hai ancora messo in conto l’irrazionalità umana. Mia madre mi disse che sarebbe stato bello avere un fratellino con cui giocare. Ma, quando arrivò, David aveva solo un’attività: attirare l’attenzione, piangere… Poi io venni sfrattato dalla mia stanza e finii nello studio di mio padre, sul divano. Una volta vidi una suonatrice di organetto con una scimmia, proprio brava, e chiesi a mia madre se potevamo scambiarla con mio fratello. Lei disse di no con una spiegazione poco chiara. Ecco, lì ho iniziato ad essere scettico verso gli adulti, l’irrazionalità: lo scambio aveva senso”» (Mastrantonio). «Da bambino speravo di fare il tassidermista. Mi piaceva la parola, ma non l’idea di imbalsamare gli animali». «Chomsky è stato un bambino prodigio. Il primo articolo lo scrisse ad appena dieci anni per un giornale locale, ed era dedicato alla guerra civile spagnola. Chomsky, già bastian contrario, parteggiava per i trotzkisti contro gli stalinisti» (Meotti). «Fu precoce anche la scoperta dell’anarchismo. “Ho subìto il fascino degli anarchici spagnoli esuli negli Usa. Tra gli anni Trenta e Quaranta ero adolescente, avevo undici o dodici anni, prendevo il treno per andare dai miei parenti a New York, da solo, nei weekend. Giravo per la città e finivo tra Union Square e Fourth Avenue, dove c’erano librerie di seconda mano gestite da immigrati, tra cui i profughi della guerra civile spagnola, e molti erano anarchici. Mi sembravano vecchi e saggi, anche se magari avevano massimo 30 o 40 anni, ma avevano un sacco di storie da raccontare, dentro e fuori dai libri”» (Mastrantonio). «I miei genitori appartenevano a ciò che si potrebbe definire un ghetto non fisico ma culturale, la comunità ebraica di Philadelphia, che era composta da diverse branche; quella in cui loro erano più coinvolti promuoveva la rinascita dei centri culturali ebraici, con particolare attenzione all’istruzione ebraica. […] Ho frequentato la scuola ebraica e l’università ebraica e, una volta cresciuto, ho iniziato ad insegnare alla scuola ebraica. Facevo parte dell’organizzazione di quelli che all’epoca venivano chiamati gruppi della gioventù sionista, che probabilmente oggi sarebbero chiamati anti-sionisti, perché per la maggior parte si opponevano all’idea di uno Stato ebraico. Il mio impegno, fin da quando ero adolescente, va nella direzione di un binazionalismo socialista» (a Mouin Rabbani). Conseguito nel 1955 il dottorato in Linguistica all’Università della Pennsylvania perfezionandosi a Harvard, fu subito assunto al Massachusetts Institute of Technology (Mit) in qualità di «assistant professor», per divenire poi nel 1957 professore associato e nel 1961 professore ordinario di Linguistica; mantenne tale cattedra fino al 2002, quando è diventato professore emerito, continuando comunque a svolgere i propri studi. «La storia del linguaggio è stata divisa in “B.C.” e “A.D.”: “Before Chomsky” (prima di lui) e “After his Discoveries” (dopo le sue scoperte). E in mezzo ci sono le guerre con i semiologi decostruzionisti, postmodernisti, strutturalisti. La linguistica americana chomskiana contro quella francese. Tutto inizia in mezzo all’Atlantico in burrasca su una vecchia carcassa affondata dai tedeschi e recuperata dagli americani, un giorno del lontano 1953, quando, in preda al mal di mare, un giovane studente di Linguistica nato a Filadelfia e desideroso di raggiungere l’Europa, Noam Chomsky, si ritira in cabina e viene folgorato da un’idea. E se l’uomo possedesse un organo del linguaggio? Un’entità mentale, astratta ma reale, localizzata nel cervello? Tutti ritengono, compreso il suo maestro Zellig Harris, che per quanto attiene il linguaggio il cervello dell’uomo sia “tabula rasa”. E che i neonati imparino a parlare per apprendimento, imitando la madre e quanti altri gli sono vicini. Il guaio è “la povertà degli stimoli”, rimugina Noam Chomsky, figlio di un insegnante di ebraico. Come può un bambino che sente un numero grande ma finito di frasi, spesso smozzicate e sgrammaticate, imparare a formularne un numero praticamente infinito, alcune delle quali mai pronunciate da nessun altro? E, per di più, a formularle senza errori di sintassi? No, gli stimoli sono troppo pochi per ammettere che l’uomo impara a parlare per apprendimento. Chomsky deve la sua importanza al fatto che è il padre contemporaneo della teoria “innatistica” del linguaggio, la “grammatica generativa”. Chomsky considera la linguistica come un aspetto della psicologia umana, come branca che ha a che fare con la capacità umana di padroneggiare una lingua. […] A partire di qui, l’acquisizione di una lingua si spiega solo ipotizzando l’esistenza di una facoltà mentale innata nel cervello, quasi genetica. Se così non fosse, sarebbe impossibile spiegare l’apprendimento da parte dei bambini di lingue straordinariamente complesse sulla base di dati frammentari e scarsi. Un “miracolo”, come l’ha chiamato Chomsky in termini religiosi, decifrabile soltanto ipotizzando una struttura linguistica comune a tutte le lingue e a tutte le menti. In questo quadro, obiettivo chiave della linguistica è quello di fornire una descrizione accurata della cosiddetta “grammatica universale”, da intendersi come il sistema di restrizioni imposte dalla facoltà (innata) del linguaggio sulla struttura di una qualsiasi lingua. […] Con il suo primo libro del 1957, Syntactic Structures, scatenò un terremoto intellettuale. Disse che il linguaggio non era un artificio culturale che esisteva là fuori, nel mondo; è invece parte dello sviluppo umano. Fu bollato come “medievale” e paragonato alla scuola di Port-Royal, che riteneva la grammatica innata e una manifestazione divina. È lì che affondano le origini delle sue polemiche contro il postmodernismo» (Meotti). «Chomsky fu il primo ad attaccare il padre del neodarwinismo, Burrhus Skinner, capofila del comportamentismo, una forma di riduzionismo antiumanista secondo cui tutto si riduce all’azione dell’ambiente: “Un metodo perfetto che non spiega nulla”, dirà Chomsky scatenando un mare di polemiche. […] La storia avrebbe dato ragione a Chomsky, e oggi la teoria skinneriana è ampiamente superata. Uno scimpanzé al quale i ricercatori neodarwiniani cercarono invano di insegnare il linguaggio sarà persino soprannominato “Nim Chimpsky”. “Chomsky ha fatto per la scienza cognitiva quello che Galileo ha fatto alla scienza fisica”, dirà forse con un po’ troppa enfasi Neil Smith, linguista allo University College di Londra. Steven Pinker, collega di Chomsky al Mit e su posizioni opposte alle sue, dice che quella generativa è diventata “la teoria da battere”. Leonard Bernstein avrebbe utilizzato la teoria chomskiana a fini musicali. E dalla sua teoria innatista è emersa persino una nuova scuola: il cognitivismo» (Meotti). «A Chomsky […] si deve dunque una delle teorie scientifiche più rivoluzionarie del Novecento, da alcuni paragonata perfino a quella della relatività di Albert Einstein. Le ripercussioni della “rivoluzione chomskiana” sono state profonde, e non soltanto nel campo della linguistica, ma anche nella psicologia e nella metodologia della scienza. Chomsky da un lato ha aperto nuove vie in una branca della matematica (la teoria formale del linguaggio) e dall’altro ha riaffermato il carattere mentalistico e astratto (invece che comportamentistico ed empiristico) della psicologia cognitiva e della linguistica» (Meotti). «È impossibile negare che Chomsky è un gigante che ha rivoluzionato il modo di intendere il linguaggio umano. Chi si avvicina a questa disciplina deve fare i conti con lui, punto. Ha scritto più di cento libri, e oggi è professore emerito al Mit. Nel suo secondo ruolo, di celeberrimo intellettuale pubblico, commentatore e guru anarchico-sindacalista, attivista per la giustizia sociale, è assai più controverso» (Anselma Dell’Olio) • «Nel 1967, sulla New York Review of Books, l’allora non ancora trentanovenne Noam Chomsky […] pubblicava un lungo saggio sulla responsabilità degli intellettuali. Quel testo diceva, in fondo, una cosa semplice: occorre svelare le menzogne del potere e cercare di ristabilire la verità dei fatti. Era un potente manifesto che serviva alla mobilitazione della meglio gioventù d’America contro la guerra in Vietnam. Nel frattempo, il professore […] è stato al centro di varie e frequenti controversie; fu più volte indicato come l’intellettuale più influente del mondo (in genere il secondo classificato era il nostro Umberto Eco)» (Goldkorn). «Dalla fine degli anni Sessanta, Chomsky è l’emblema dell’intellettuale impegnato, sempre pronto a denunciare l’imperialismo “sinoamericano” e a chiudere più di un occhio sulle tirannie. E con più di una figuraccia. La difesa del regime genocida di Pol Pot, che fra il 1975 e il 1979 sterminò quasi un terzo della popolazione cambogiana, macchierà per sempre la sua reputazione. Nel giugno del 1977, su The Nation, definiva “distorsioni di quarta mano” le testimonianze giornalistiche sulle condizioni di Vietnam e Cambogia dopo la vittoria dei comunisti. Per Chomsky le “storie fantasiose sulle atrocità comuniste” avevano lo scopo di minare la credibilità di chi si opponeva alla politica estera statunitense. Lui presentava un’immagine idilliaca della situazione cambogiana e minimizzava il numero delle vittime (“poche migliaia”), paragonandole ai collaborazionisti giustiziati dai movimenti di resistenza alla fine della Seconda guerra mondiale. “Il cosiddetto massacro dei khmer rossi – concludeva – è una creazione del New York Times”. Due anni dopo, quando gli orrori non poterono essere più negati, Chomsky disse che gli aspetti negativi del regime andavano bilanciati con “le realizzazioni costruttive”. “Gli aspetti positivi dei khmer rossi…”, scriveva Chomsky in After the Cataclysm. […] La peggior prova di sé, il guru del Mit l’ha data quando ha scritto che i tremila morti dell’11 settembre erano meno gravi dei sudanesi rimasti uccisi in un bombardamento ordinato da Clinton di una fabbrica a Khartoum. Noam Chomsky costituisce un mistero culturale, politico e umano. Il New Yorker lo ha definito “una delle più grandi menti del XX secolo, ma anche una delle più odiate”. […] Questo guru della sinistra radicale, strana specie di anarchico libertario e anticomunista, con la moglie Carol avrebbe trascorso alcuni mesi a lavorare in un kibbutz: “Amavo quella vita, il lavoro fisico, ma mi disturbava l’omologazione ideologica, stalinista”, dirà Chomsky. Da allora il rapporto con Israele, soprattutto dopo la guerra del 1967, ha portato il linguista su posizioni favorevoli allo smantellamento dello Stato ebraico e alla collusione con i suoi più spietati nemici. […] A differenza degli altermondisti italiani, gli eroi di Chomsky non sono mai stati Lenin e Marx, quanto Adam Smith e Wilhelm von Humboldt. Per Chomsky il vero libero mercato non esiste: c’è, invece, la collusione di Stato e interessi privati» (Meotti). «Le parole di Chomsky sono perfettamente compatibili con il movimento Occupy Wall Street e il bestseller di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo. “L’ineguaglianza dipende soprattutto dai super ricchi. Non è solo ingiusta in sé: l’ineguaglianza ha un effetto deleterio sulla democrazia. Una volta era possibile (per le classi meno abbienti) comprare un’auto, una casa, mandare i figli a scuola. Ora è tutto crollato”. […] L’epoca d’oro, secondo Chomsky, sono gli anni che vanno dalla Grande depressione (quando si stava addirittura “meglio di oggi” in quanto a distribuzione della ricchezza) fino agli anni Sessanta, grazie alla diffusione del welfare state. Il Potere avrebbe reagito di brutto all’ascesa di giovani e neri, liberi e indipendenti, di quell’epoca, stringendo i bulloni e creando l’attuale contrapposizione tra “plutonomia e precariato” (“Non avevo previsto la violenza della reazione”). […] È però falso che avrebbe scritto a favore del negazionista dell’Olocausto Robert Faurisson: si è limitato a difendere il diritto alla sua libertà di parola» (Dell’Olio). «In ogni saggio militante di Chomsky la tecnica di formazione del testo è identica: si confeziona un collage con testi e citazioni inoppugnabili, quasi sempre selezionati da fonti che non condividono il nichilismo del linguista: l’Economist, il Wall Street Journal, fonti del governo Usa, l’amato columnist inglese filo-arabo Robert Fisk. Dall’assemblaggio di “dati oggettivi”, Chomsky deriva un’analisi cupa, tetragona, sempre dalle stesse conseguenze: gli Stati Uniti tessono un crudele, infingardo, onnipotente, organizzatissimo complotto per depredare i Paesi poveri e i loro lavoratori, il mercato, il capitale, le banche e Wall Street strizzano profitti, il resto del mondo assiste, complice, supino o vittima, allo scempio, di cui manutengolo è Israele. Vietnam, Centro America, Balcani, Iraq, America Latina, il complesso mondo che dalla fine della Seconda guerra mondiale, alla Guerra fredda, alla globalizzazione, all’11 settembre e all’ascesa della Cina fa da scena alle nostre vite è, per Chomsky, canovaccio gelido, dove i Potenti gestiscono nell’ombra camarille e ogni intellettuale che non concorda con questa apocalittica lettura della Storia è venduto o ignorante. I “fatti”, l’oggettività, la dialettica, le diverse opinioni, non sono che pagliai da distruggere in questa Cavalcata delle Valchirie» (Gianni Riotta) • «Di solito vengono definite come terrorismo le azioni perpetrate dalla parte avversa alla nostra. Così, quando l’Is decapita qualcuno siamo tutti indignati. Ma lo siamo stati molto meno quando […] Israele ha invaso e bombardato Gaza, e l’attacco è stato così massiccio e distruttivo che la gente riusciva a stento a trovare pezzi dei cadaveri dei propri cari, tra le macerie delle abitazioni. Quell’attacco fu perpetrato con la scusa del terrorismo di Hamas e con le armi fornite dagli Stati Uniti. E quindi, essendo stato fatto da un nostro alleato, non l’abbiamo considerato come un atto di terrorismo. […] Proviamo a immaginarci che l’Iran decida di uccidere persone, fuori dai suoi confini, sospettate di voler danneggiare il governo di Teheran: gente che apertamente chiede di bombardare l’Iran, appunto. Diremmo: ecco una serie di attacchi terroristici. Però questa è una pratica accettata e portata avanti dall’amministrazione di Barack Obama. Noi le chiamiamo “uccisioni mirate”. Secondo i dati ufficiali, in quelle azioni sono morte tremila persone, sospette di voler compiere attentati contro gli Stati Uniti. La consideriamo una pratica legittima, eppure si tratta di terrorismo. […] Il terrorismo jihadista cui assistiamo oggi è conseguenza dell’aggressione americana contro l’Iraq». Grande risonanza ebbe nel 2007 la «lode riservatagli da Bin Laden, che lo ha definito “uno dei più capaci fra quelli che stanno dalla vostra parte” per via delle tesi anticapitaliste esposte nel libro Hegemony or Survival, già oggetto dei complimenti del presidente venezuelano Hugo Chávez» (Maurizio Molinari) • «Le principali minacce per tutti noi oggi sono le catastrofi ambientali e la guerra nucleare. […] Per le “democrazie occidentali” una grave minaccia è il declino della democrazia radicale, per l’assalto neoliberista alla popolazione mondiale nella passata generazione: le democrazie formali diventano sempre più plutocrazie». Celebre la sua metafora della rana bollita, a significare la studiata gradualità con cui i potenti soggiogherebbero le masse: «Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole, e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°, avrebbe dato un forte colpo di zampa e sarebbe balzata subito fuori dal pentolone» • «“Trump è un politico molto efficace, che gioca su due tavoli di elettorato: da una parte le grandi aziende e i super-ricchi, dall’altra il ‘popolo’ che lui dice di difendere. Le sue buffonate sono perfette per tenersi stretto il secondo elettorato (vedi i proclami contro le élite), ma le sue politiche economiche favoriscono evidentemente i paperoni. Finora, da questo punto di vista, la sua propaganda ha raggiunto risultati di cui ogni demagogo dovrebbe essere fiero”. […] “L’establishment politico centrista spesso chiamato ‘sinistra’ (come i democratici Usa, i Labour nel Regno Unito, i socialdemocratici in Europa) si è piegato all’ordine neoliberale voluto dalla destra e delle élite del secolo scorso. Quello di cui ha bisogno adesso la sinistra sono nuove forze politiche e sociali per combattere questo status quo ingiusto. Bisogna ripartire dai Sanders, dai Corbyn e dagli altri: adesso sono molto più organizzati che in passato”. Lei si è spesso definito anarchico. Lo è ancora, a quasi 90 anni? “Credo che la gerarchia e il dominio non si giustifichino da soli. E quando non riescono ad avere una giustificazione dovrebbero essere smantellati in favore di una società più equa e giusta: è il principio fondamentale del pensiero anarchico”» (Antonello Guerrera) • Tre figli dalla linguista Carol Doris Schatz (1930-2008), con cui è stato sposato dal 1949 fino alla morte di lei. «La moglie […] aveva spiegato le modalità con cui i bambini apprendono il linguaggio nella primissima infanzia. Lei accademica di rango alla Harvard Graduate School of Education, lui guru al celebre Mit del Massachusetts» (Meotti). Nel 2014 si è sposato in seconde nozze con la traduttrice brasiliana Valeria Wasserman, di oltre trent’anni più giovane. «La vita senza l’amore è un affare piuttosto vuoto» • «Nelle sue teorie sulla sintassi che mi appassionavano da ragazzo, Chomsky ritiene che le strutture del linguaggio siano comuni, innate, condivise dagli esseri umani. Rileggendolo adesso viene il dubbio che, nella bulimia retorica, per Chomsky anche le idee politiche e le “verità” sulla Storia siano innate, e che tocchi a lui solo, come ha fatto per i linguaggi, riconoscerle e svelarcele» (Riotta). «I suoi saggi di linguistica non parlano mai di politica, e i suoi saggi di politica non parlano mai di linguistica, ma ci si può chiedere se e come, ad un livello profondo, il suo pensiero linguistico e il suo pensiero politico trovino un fattore comune. Così mi risponde Chomsky: “Forse, andando abbastanza in profondità, si tratta di speculazioni sugli aspetti fondamentalmente creativi della natura umana. Queste idee trovano espressione tanto nel pensiero sociale e politico di stampo libertario quanto nello studio del linguaggio. I primordi si possono rintracciare, andando indietro nel tempo, all’alba della rivoluzione scientifica, in Galileo, Cartesio e altre figure-guida del pensiero moderno. Le ramificazioni e le implicazioni sono numerose e significative ancora ai nostri giorni, in ambedue queste aree”» (Massimo Piattelli Palmarini).