Cosa la fece innamorare?
«Un paio di giorni dopo notò il mio numero sul braccio. Io so cos’è, mi disse. E io so che tu hai sofferto molto. Mi ritrassi, non parlavo allora come non avrei parlato nei successivi quarant’anni. E lui mi raccontò che, avendo scelto di non aderire alla Repubblica Sociale, aveva trascorso due anni in sette campi di prigionia nazisti. Alfredo Belli Paci era uno dei seicentomila militari internati in Germania».
L’aver condiviso prigione e dolore vi ha unito?
«Sì, certo. Ma Alfredo per tutta la vita avrebbe fatto un passo indietro. Anche lui aveva sofferto la fame e la paura, ma era come se la sua storia meritasse meno attenzione. Così fin da subito mi innalzò sopra un altare anche esagerando — io non mi sentivo un’eroina, in fondo ero viva per caso — ma davanti ai figli non ha mai voluto mettere sullo stesso piano i nostri vissuti».
L’ha voluta proteggere.
«Moltissimo. E io percepii questa sua forza sin dal primo momento. Anche da prigioniero era stato una roccia. Mi raccontava che, pur essendo denutrito, aveva preferito sacrificare un pezzetto di margarina pur di avere gli stivali lucidi. Voleva mantenere il suo decoro di ufficiale al cospetto dei carcerieri nazisti. A me, invece, la dignità era stata negata».
Riuscì ad aprirsi con lui?
«Poco. Ho sempre fatto una fatica enorme a raccontargli le cose. In realtà volevo godermi il nostro amore, pensare al futuro insieme. Per la prima volta amavo e mi sentivo riamata. E per una sorta di egoismo preferivo immergermi nella gioiosa quotidianità di una ragazza comune, che trepidava per una lettera o un incontro romantico».
La parola amore entrò nel suo vocabolario.
«Alfredo fu decisivo. Io non sapevo neppure baciare. E lui mi ha insegnato tutto».
Lei ha raccontato che prima di conoscerlo aveva anche pensato al suicidio.
«Non era un pensiero fisso. Ma avevo combattuto per sopravvivere per poi fare i conti con un’esistenza squallida: non sapevo comunicare e non trovavo nessuno che mi potesse ascoltare. Così la pistola che lo zio conservava nella cassaforte cominciò a solleticare la mia fantasia: ma perché devo vivere una vita così?».
Fu Alfredo ad allontanarla da quel pensiero?
«Prima di lui mi distrasse lo studio. Nei libri trovai la forza per andare avanti. E smisi di mangiare senza misura come avevo cominciato a fare subito dopo il lager. Quando tornai dalla Germania, sei mesi dopo Auschwitz, pesavo quaranta chili di troppo. Gli zii mi guardavano anche un po’ delusi: ma come, non morivate di fame? In noi sopravvissuti c’era sempre qualcosa di sbagliato».
Cosa fece suo marito per aiutarla?
«Non mi ha mai compatito, anzi poteva assumere toni severi e questo mi è stato di grande aiuto. Perché se da un lato mi ha sempre messo su un gradino sopra di lui dall’altra non ha mai rinunciato a rieducarmi alla vita civile. Io ero un animale ferito, anche selvaggio, insofferente alle costrizioni sociali, disordinatissima. Lui era formale come tutti i militari, preciso, ordinato, molto composto. Non me ne faceva passare una. E io facevo di tutto per migliorare: volevo piacergli di più».
La fece uscire dal lager, almeno psicologicamente.
«In realtà non ero più prigioniera da tempo. Aprivo la finestra e vedevo i fiori, non il filo spinato. Ma certe cose erano rimaste in me, e forse le trattengo tuttora».
Lui temeva il suo sguardo.
«Mi diceva sempre che il mio sguardo era terribile perché andava oltre le cose. Invece sei qui, devi stare qui, mi incalzava. Anche i miei figli pativano questo sguardo».
Che cos’era?
«Un’astrazione dal mondo. Mi capitava di tornare a essere la ragazza di Auschwitz. Una ragazza completamente sola. La solitudine è una cicatrice che non si chiude».
Ancora oggi?
«Ha cominciato a guarire quando ho iniziato a "vomitare" le parole in pubblico: uso non a caso questo verbo, per sottolineare il senso di liberazione ma anche lo sforzo».
Come prese Alfredo la sua decisione di diventare testimone pubblica?
«Non fu contento. Temeva che l’esposizione mi avrebbe rinnovato il dolore. E temeva anche di perdere una sorta di esclusiva su di me. Ma io alla mia famiglia non chiesi consiglio: comunicai piuttosto una decisione».
Una decisione maturata nel tempo.
«Sì. Anche il mio matrimonio era cambiato. All’inizio ero stata una sposa innamorata, poi la madre affettuosa di tre figli: l’ultima, Federica, è nata nel 1965. Fin quando sprofondai nel male oscuro raccontato da Giuseppe Berto. Mi ritrovai a 46 anni senza le forze psichiche per affrontare la giornata».
E suo marito?
«Non l’accettava. Era convinto che si trattasse della menopausa. Sottovalutò il mio malessere, ma ebbe la pazienza di far finta di crederci».
Cos’era questo suo malessere?
«Difficile da dire. Una somma di infinite cose che avevo messo in un ripostiglio della mente. Il colpo di grazia era stata la morte della nonna materna, l’ultima figura della mia infanzia».
Non era più contenta della sua
vita borghese?
«Non è proprio così, perché io ero felice di quella cornice amorosa.
Però dentro di me cominciava a serpeggiare il dubbio di non aver fatto il mio dovere di testimone. Mi ero infrattata tra queste mura agiate, dentro una famiglia rassicurante, e la Liliana di prima l’avevo completamente lasciata indietro».
Come da tutte le crisi nacque una donna diversa.
«Sì, ma forse quella donna nuova ad Alfredo piaceva meno.
Cominciai anche a lavorare nell’azienda dello zio, conquistando finalmente la mia autonomia economica. E smisi di essere gelosa. Lui era un bell’uomo, galante, un gran civettone. Qualche volta in occasioni mondane esagerava un po’, così sulla strada del ritorno litigavamo: "Hai fatto il cretino". "Ma no, cosa dici amore mio?"».
È vero che quando lei ha cominciato ad andare nelle scuole lui si sedeva nell’ultima fila e si commuoveva?
«Sì, qualche volta è successo. Aveva la lacrima facile, mentre io ho sempre fatto una gran fatica. La stagione della testimonianza è stata molto felice per noi. Superato l’ostruzionismo amoroso, mi aspettava a casa all’ora di pranzo.
Io parlavo agli studenti dopo l’intervallo. E nella strada da scuola a casa mi portavo appresso il mio sguardo perso. Finché aperta la porta sentivo la sua voce — amore mio, tutto bene? — e rientravo a fare la mia parte».
E ora che non c’è più?
«Dopo la sua morte smisi per un po’ di testimoniare. Poi ho ripreso, sapendo che nessuno mi avrebbe più detto: amore, tutto bene?».
C’è ancora in lei quella ragazza selvatica?
«Non in me, ma nella ragazzina di cui sono diventata la nonna. Già da anni sento il pericolo dello sdoppiamento. Così un giorno potranno capitare due cose. O che mi sveglio e non me la ricordo più.
Oppure torno a essere quella ragazzina. Perché entrambi i ruoli è difficile mantenerli».